di Armando Donninelli –
Nella Tracia occidentale risiede fin dal quattordicesimo secolo, cioè dall’invasione ottomana, una comunità turcofona di circa 90mila persone, approssimativamente un quarto della popolazione complessiva della Regione.
Nel 1923 il Trattato di Losanna, tra le varie questioni, affrontò anche l’argomento dei turcofoni della Tracia occidentale, passati da poco sotto la sovranità greca dopo essere stati per secoli cittadini dell’Impero Ottomano. Tale accordo, ancora valido, determinò un’ampia e accurata serie di garanzie per questa popolazione, in particolare riguardo religione, lingua e cultura.
Queste tutele furono applicate solo in parte, ciò soprattutto a causa dei pessimi rapporti, salvo qualche breve periodo di riappacificazione, tra Ankara e Atene. Quest’ultima vedeva in sostanza la comunità in questione come una quinta colonna della Turchia, pronta a supportarla in caso di guerra con la Grecia.
Per comprendere il regime pesantemente discriminatorio subito dai turcofoni in questione, basti pensare all’estrema facilità con cui le autorità elleniche toglievano loro, frequentemente e arbitrariamente, la cittadinanza greca e quindi anche le tutele che essa comportava. Si stima che circa 60mila turcofoni persero la cittadinanza greca in tale maniera, ciò fino al 1998, anno in cui fu abrogata la norma che consentiva questa palese e grave violazione dei diritti umani.
Oggi la situazione in alcuni ambiti è certamente migliorata, grazie soprattutto a pressioni internazionali. Tuttavia, nel complesso, i turcofoni della Tracia occidentale continuano a vivere in un contesto che non tutela appieno i loro diritti.
Il settore che appare maggiormente problematico è certamente quello dell’istruzione, vale a dire la formazione dei cittadini del domani. Sebbene gli articoli 40 e 41 del trattato di Losanna concedano alla minoranza il diritto all’istruzione nella propria lingua madre e la piena autonomia nella gestione delle istituzioni educative, tradizionalmente Atene tende a non rispettare appieno queste disposizioni.
Un rapporto di Human Rights Watch ha criticato la Grecia per il mancato rispetto dei propri obblighi in ambito educativo. Difatti le strutture e il materiale didattico sono obsoleti e insufficienti, specie se raffrontati con le disponibilità delle scuole di lingua greca, ma anche l’impegno delle autorità per la formazione e la selezione degli insegnanti appare inadeguato.
Tuttavia, il problema maggiore in ambito educativo è certamente quello che riguarda la chiusura delle scuole turcofone della Regione, ciò in tutti i gradi. Tali centri didattici sono passati dai 231 del 1995 ai 90 attuali, ciò con una tendenza alla loro chiusura che è nettamente aumentata dal 2011.
Le autorità elleniche giustificano tali provvedimenti con la motivazione, piuttosto elusiva, che mancherebbero studenti. Ciò però non corrisponde al vero. Difatti le scuole rimaste accolgono, generalmente, un numero nettamente maggiore di studenti rispetto alle loro capacità. Alcune di esse hanno addirittura iniziato un sistema di funzionamento su due turni, ciò per sfruttare appieno le strutture esistenti che, altrimenti, sarebbero assolutamente insufficienti.
In conformità al Trattato di Losanna i cittadini turcofoni possono richiedere nei loro confronti l’applicazione della legge islamica, vale a dire la sharia. Nel 2018 il Parlamento ellenico ha reso più restrittiva tale facoltà, richiedendo che tutte le parti coinvolte devono concordare nel richiedere l’applicazione della sharia.
Una questione importante che attualmente risulta sopita, ma che in futuro potrebbe riemergere prepotentemente, è quella relativa alla scelta dei leaders religiosi, in particolare i mufti. Dall’inizio degli anni 90 del secolo scorso Atene ha iniziato ad attribuire questa competenza al Ministero dell’Istruzione e degli Affari religiosi, togliendola in tal modo dall’influenza della minoranza. Ne sono nate ovviamente delle controversie giuridiche, ma, in modo arbitrario, la magistratura greca ha dato ragione a queste iniziative dell’esecutivo ellenico.
Fortunatamente tali decisioni sono state ribaltate da successive sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), ciò con pronunce importanti, basti pensare al caso Serif contro Grecia del 1997. Atene comunque continua a nominare i mufti, ciò con la motivazione che svolgono un ruolo di giudici e amministratori con decisioni vincolanti. Oggi solo due mufti sono eletti direttamente dalla comunità.
La comunità turcofona non pone comunque dei problemi per quanto riguarda il radicalismo religioso, del resto l’Islam qui praticato è tradizionalmente moderato e tollerante. Tale aspetto è stato evidenziato quando sono emerse preoccupazioni, supportate da fatti concreti, in ordine all’estremismo religioso di alcuni immigrati, regolari e non, stabilitisi in Grecia. A tal riguardo alcuni analisti hanno iniziato a distinguere tra “vecchio Islam”, vale a dire quello praticato dai turcofoni e avente le caratteristiche citate, e “nuovo Islam”, cioè quello seguito da determinati immigrati e che appare carico d’incognite.
In generale l’atteggiamento delle autorità elleniche è piuttosto restrittivo in ordine al riconoscimento della comunità e dei suoi diritti. Ufficialmente Atene nei suoi atti indica i “musulmani della Tracia occidentale”, comprendendo in tale definizione anche i pomacchi e i rom convertiti all’Islam, complessivamente un altro 15% della popolazione regionale. Ankara sostiene che ciò corrisponda a un preciso disegno di Atene di sminuire il peso demografico della comunità turcofona.
Le stesse organizzazioni che comprendono la dicitura “turco”, come ad esempio i sindacati, non sono ufficialmente riconosciute. In tale modo è loro impedito di essere pienamente operative. Tutto ciò con l’avallo della magistratura nazionale, compresa la Corte suprema.
Alla base di quest’ostilità di fondo vi è il timore da parte di Atene che la comunità turcofona divenga uno strumento della vicina e temuta Turchia. Ciò è confermata dalla profonda diffidenza con cui le autorità elleniche accolgono le varie iniziative dirette a supportare la comunità da parte del consolato turco a Komotini, il capoluogo di regione.
Tradizionalmente i turcofoni e i madre lingua greci vivono nello stesso spazio geografico regionale, ma in modo nettamente separato. Ogni comunità ha le proprie scuole, i propri mezzi d’informazione e anche le aree abitative tendono a essere distinte, difatti i turcofoni si concentrano nelle zone attorno alle città di Komotini e Xanthui. Tale comunità minoritaria è nettamente più povera da un punto di vista economico, questo in una regione già poco prospera e prevalentemente dedita all’agricoltura.
Il contesto in cui i turcofoni della Regione sono costretti a vivere dal 1923, fatto di discriminazioni, povertà e mancanza di prospettive, ha determinato una forte tendenza dei membri di tale comunità a emigrare all’estero in cerca di una vita migliore. Si stima che in tale periodo siano stati circa 300.000 i membri di tale comunità a trasferirsi in altri paesi, specialmente in Turchia, Germania, Regno Unito e Paesi Bassi.
Per richiamare l’attenzione sulla tutela dei propri diritti i turcofoni della Regione hanno indetto nel 1988 una giornata chiamata Giorno della Resistenza. In tale occasione, celebrata tutti gli anni il 29 gennaio, si svolgono manifestazioni dirette a evidenziare la propria identità e a sollecitare le autorità competenti a una maggiore tutela in ambiti specifici.
La comunità ha un proprio movimento politico, il Partito dell’Amicizia Uguaglianza e Pace, nato nel 1991 sulle ceneri di un’analoga formazione. Tuttavia i voti tale organizzazione li può ottenere solo nelle zone abitate dai turcofoni, insufficienti a superare la soglia di sbarramento per accedere al Parlamento nazionale, cioè il 3%. Per comprendere il contesto complessivo, occorre ricordare che le autorità elleniche rifiutano, categoricamente, di porre deroghe a questo sbarramento con la finalità di consentire a tale partito rappresentativo della minoranza di avere propri parlamentari. Lo stesso discorso è ovviamente valido anche per quanto riguarda le elezioni al Parlamento europeo.
In passato alcuni membri della comunità sono riusciti a essere eletti nel Parlamento nazionale, all’interno delle liste del Pasok e Syriza. Nell’attuale legislatura non vi sono membri turcofoni, questa è una grave mancanza in quanto la minoranza non può far sentire la sua voce in ambito nazionale e legislativo.
La stessa Turchia, con la sua politica, fornisce l’impressione di non essere interessata a una reale tutela della comunità, bensì di volerla utilizzare come pedina nelle sue tradizionalmente difficili relazione con Atene. Basti pensare che nel 2017, in una fase di profonda tensione tra i due paesi, Erdogan parlò di una modifica dei confini per ricongiungere la comunità alla madre patria. Ciò, ovviamente, suscitò molto allarme nel paese ellenico. Al contrario, alla fine dello scorso anno, in una fase di riavvicinamento tra Turchia e Grecia, peraltro spinta da Washington, il Ministro degli Esteri di Ankara ha usato toni molto più concilianti e improntati alla collaborazione transnazionale in ordine alla situazione dei turcofoni.
Si tratta di una comunità di frontiera, situata tra due storici nemici, ma anche tra Europa e Medio Oriente, tra paesi cristiani e musulmani. Proprio in tale zona di confine le diverse parti coinvolte cercano di aumentare la propria influenza senza curarsi realmente di quelli che sono i reali problemi dei turcofoni della Tracia occidentale i quali, conseguentemente, restano abbandonati a se stessi e al loro destino che appare incerto.