India. La grande protesta contro le corporation dell’agricoltura: Modi riconosce le ragioni dei contadini

di Maurizio Delli Santi * –

I 650 milioni di agricoltori indiani si sono sentiti minacciati da una radicale riforma del sistema agricolo che, in nome della liberalizzazione dei mercati, li avrebbe esposti a gravi rischi per la tutela dei loro ricavi. Il governo Modi è ritornato sui suoi passi, ma i parlamentari indiani farebbero meglio a rileggere gli scritti del loro Nobel per l’economia Amartya Seyn, che – come anche il liberale Luigi Einaudi – ha ben denunciato i rischi del disequilibrio dei mercati lasciati a sé e minacciati dai monopoli.
Mentre in Europa gli agricoltori potranno ancora essere tutelati dagli oltre 386 miliardi di euro nel quinquennio 2023-2027 della nuova Politica agricola comune (Pac), i riflettori dei media internazionali sono ora puntati su quella che è stata definita una delle più grandi proteste degli agricoltori nel mondo. Si tratta della grande manifestazione dei contadini indiani indetta contro una riforma che avrebbe radicalmente cambiato l’attuale sistema che regolamenta uno dei più grandi mercati agro-alimentare mondiali. Il movimento degli agricoltori indiani non ha ancora completamente sospeso la protesta, ma ha potuto ottenere dal premier Narendra Modi l’annuncio che presto il parlamento procederà all’abrogazione delle “tre leggi di riforma” del sistema agricolo. Nel giorno della festa sacra dei sikh, il 19 novembre, ricorrenza della nascita del celebre Guru del sikhismo Nanak Jayanti, il primo Ministro indiano ha infatti dichiarato che “forse sono stati fatti degli errori” nel non ascoltare le ragioni della protesta degli agricoltori.
La contestazione è durata oltre un anno, ed è stata combattuta strenuamente dai contadini, dapprima negli stati rurali dell’Haryan e del Punjab, poi a livello nazionale al grido di “Bharat bandh”, chiudiamo l’India.  Gli agricoltori indiani si sono riversati nelle piazze, nei mercati, giungendo con i trattori si sono accampati in massa nella periferia di Delhi, ed hanno sfidato il freddo, il caldo, la pandemia, e soprattutto gli interventi con idranti e bastoni della polizia indiana. Il governo ha reagito con una dura repressione, piuttosto singolare per una democrazia, causando oltre 700 morti e giungendo anche a bloccare l’accesso a internet nelle aree interessate. Di fatto ha attuato uno stato di emergenza rivolgendo l’accusa ai manifestanti di essere manovrati dall’indipendentismo sikh, da maoisti, terroristi, estremisti, agenti provocatori guidati dalla Cina e dal Pakistan e da altri “professionisti della protesta”.
Ma in India gli agricoltori non sono affatto una minoranza. I circa 650 milioni di agricoltori rappresentano il 50% su una popolazione di 1, 3 miliardi di persone, e il 60% della forza lavoro che genera 1/3 del PIL nazionale. Sono una grande forza sociale, con una forte identità che nasce dalla storica lotta al colionalismo inglese e al modello latifondista, dalla cui emancipazione è derivata una larga diffusione della piccola proprietà contadina: si stima che l’85% degli agricoltori indiani abbia meno di due ettari a testa, e meno di uno ogni cento ha terreni superiori ai 10 ettari. Tuttavia, le precarie condizioni di vita dei contadini indiani sono endemiche, e un triste indicatore è il fenomeno di suicidi, circa 12mila all’anno, ritenuti riconducibili ai frequenti indebitamenti e alle crisi climatiche che portano continui periodi di siccità e carestia.
Queste sono le “tre leggi nere” che gli agricoltori hanno strenuamente combattuto:
il Farmers’ Produce Trade and Commerce (Promotion and Facilitation) Act, che avrebbe permesso la vendita dei prodotti della terra al di fuori dei mercati regolamentati dal settore pubblico, anche tra i diversi Stati del Paese, senza forme di controllo o di tutela nella formazione dei prezzi;
il Farmers (Empowerment and Protection) Agreement of Price Assurance and Farm Services Act, che avrebbe consentito accordi sulla produzione in anticipo direttamente tra compratori e agricoltori; 
l’Essential Commodities (Amendment) Act, in base al quale da ora in poi il governo avrebbe potuto regolamentare il commercio di alcuni beni essenziali (es. cereali, legumi e oli) solo in casi eccezionali, come le guerre o le calamità naturali.
La riforma avrebbe dunque profondamente alterato il modello economico agricolo del paese che dal 1964 si regge invece sull’intervento regolatore dello Stato. Il sistema è una specie di “farmer friendly” ante litteram, basato su commissioni che controllano i mercati, gli “Apcm”, Agricultural Produce Market Committees: gli agricoltori vendono il raccolto in mercati regolati dallo Stato, che in parte compra direttamente il prodotto e in parte lo transa ai privati, ad un prezzo minimo garantito, il Minimum Support Price (MSP).
Varate senza alcuna consultazione con le organizzazioni contadine, le tre leggi sono state sostenute dal partito del premier Modi, il Bharatiya Janata Party, e quindi approvate in parlamento. Di fatto avrebbero smantellato l’attuale sistema in nome di un male interpretato neoliberismo, prevedendo trattative dirette tra agricoltori e compratori interessati, i quali sarebbero stati liberi in questo modo di imporre le loro condizioni.
Per diversi analisti il governo indiano poteva essere anche animato da buone intenzioni perché il sistema non garantisce, come si è visto, situazioni ottimali per gli agricoltori e indubbiamente può presentare inefficienze. Ad esempio, in Stati a vocazione agricola come il Punjab e l’Haryana, il governo arriva ad acquistare a prezzo concordato fino al 45% del grano e del riso prodotti in surplus, mentre in altri Stati, come il Bihar, sono noti la corruzione e l’arretratezza nei sistemi di produzione. Ma un’opinione abbastanza diffusa anche tra gli economisti di formazione liberale è che quella adottata dal parlamento indiano non sia stata la strada migliore per migliorare il modello agroalimentare indiano. Se la riforma aveva l’obiettivo di liberalizzare il mercato, per gli agricoltori il sistema non avrebbe più garantito condizioni di tutela dei loro ricavi, affidando di fatto il controllo della produzione e del mercato alle corporation agricole e alle grandi aziende private. Fortunatamente il premier Modi si è convinto che i suoi agricoltori avevano ragione ed è tornato sui suoi passi.
A dire il vero, se si guarda al nostro limes occidentale, anche le nostre organizzazioni agricole denunciano rischi di alterazione nel sistema di formazione dei prezzi per qualche forma di concentrazione o di cartello delle corporation agricole o della c.d. Gdo, la grande distribuzione organizzata. E se rispetto a questa tendenza gli agricoltori europei ne escono meglio tutelati è solo grazie alla regolamentazione comunitaria dei mercati e al sistema degli aiuti all’agricoltura, dove il sostegno al reddito degli agricoltori rappresenta il 70% dei finanziamenti destinati alle circa 7.000 aziende agricole della UE.
Ma una riflessione puntuale sul tema può esserci suggerita anche dalle pagine di un grande economista, Luigi Einuadi di cui il 30 di ottobre qualcuno ha ricordato il sessantesimo anniversario della morte. Apprezzato per la carica ricoperta con grande autorevolezza di Presidente della Repubblica nel difficile dopoguerra, dal 1948 al 1955, Einaudi contraddistinse il suo pensiero liberale per l’estremo rigore con cui difendeva le regole del libero mercato dall’insidia dei monopoli, di qualsiasi tipo, pubblici o privati.
L’economista di Dogliani credeva fermamente nell’intervento regolatore dello Stato per impedire le concentrazioni di potere che condizionano la formazione dei prezzi, ammonendo che la lotta contro i monopoli “è uno dei principali scopi della legislazione di uno Stato, i cui dirigenti si preoccupino del benessere dei più e non intendano curare gli interessi dei meno”.
Ma forse i parlamentari indiani fanno ancora in tempo a rivolgersi al loro premio Nobel per l’economia Amartya Sen, che ha ben denunciato i rischi del disequilibrio dei mercati lasciati a sé e nell’affermare la negazione dell’ “ottimo paretiano” – il “punto di equilibrio” tra risorse nel gioco competitivo, come quello tra domanda e offerta, richiamato dalle teorie di Vilfredo Pareto – anche lui ha sostenuto che non basta il solo mercato per sviluppare una società liberale.

* Membro International Law Association e Associazione Italiana di Sociologia.