Janiki Cingoli, ‘Netanyahu, l’État c’est lui’

‘Al centro delle contestazioni per una riforma della giustizia accentratrice’.

a cura di Gianluca Vivacqua * –

C’erano una volta nella destra israeliana (non molto tempo fa, in realtà), un superfalco e un falco. Il superfalco, Ariel Sharon, negli ultimi anni prima di morire si convertì a un sostanziale moderatismo. Così il falco, Benjamin Netanyahu, che nella sua prima esperienza da premier (1996-99) era stato accusato persino di essere un debole per i suoi tentativi di negoziazione con Arafat, si trovò a trasformarsi egli stesso in superfalco, dal 2005 in poi. Volendo fare un’analisi storica onesta, si potrebbe dire che il cambio di passo fu determinato anche, in un certo qual senso, dall’esaurirsi della “spinta propulsiva” degli accordi di Oslo con i palestinesi, per i quali proprio Netanyahu, negli anni del suo primo premierato, si impegnò a cercare gli ultimi margini di attuazione. Poi, il fallimento della Camp David 2 in cui Clinton aveva pensato di coinvolgere il successore laburista di Netanyahu, Barak, e quello del tentativo di John Kerry, Segretario di Stato di Obama, nel 2014. Infine, il controverso piano Trump, annunciato all’inizio del 2020, che si concluse con la rinuncia israeliana all’annessione di larga parte della Cisgiordania, in cambio degli accordi di normalizzazione con diversi paesi arabi, i cosiddetti “Accordi di Abramo”. Si aprì una nuova fase nei rapporti israelo-palestinesi. Gli Stati Uniti da allora, soprattutto con la nuova Presidenza Biden, hanno rinunciato al tentativo di proporre piani di pace complessivi, ripiegando su una più modesta politica di management del conflitto.
Sharon sembrava l’uomo giusto per realizzare i presagi più pessimistici (gli era bastata una semplice passeggiata sulla Spianata, da capo dell’opposizione, per provocare la Seconda Intifada), ma anch’egli alla fine ha dovuto arrendersi alla realtà e ordinare il ritiro da Gaza e da larghe parti della Cisgiordania, anche a costo di spaccare il Likud. Netanyahu dopo di lui ha saputo fare anche peggio: da “Margine di protezione” a “Scudo e freccia” non si contano le campagne ordinate dal premier, con cadenza quasi annuale, nei territori dei palestinesi. Di questa mattina la notizia di una nuova operazione su larga scala a Jenin, nel nord della Cisgiordania, destinata a durare molti giorni. Odiato dai palestinesi e neppure troppo amato dai suoi concittadini, a causa di guai giudiziari a cui cerca di porre riparo con atti politici ad hoc; leader da rottamare? Più facile a dirsi che a farsi (chiedere ai vari Gantz, Bennett e Lapid). Con Janiki Cingoli, esperto di questioni mediorientali che analizza per l’Huffington Post, e già Presidente del CIPMO, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, abbiamo cercato di focalizzarci sulla caratura internazionale della sua leadership ma anche di inquadrarlo come figura ormai ampiamente storicizzabile.

– Dottor Cingoli, innanzitutto quale posto pensa possa già occupare Netanyahu nella storia di Israele?
Netanyahu detiene già il record di longevità tra i premier della storia israeliana. E certamente ha influito profondamente, soprattutto nella sua prima fase, smantellandone le bardature stataliste. Ma anche in negativo, inducendo Trump ad abbandonare nel 2018 lo JCPOA, l’accordo sul nucleare iraniano voluto da Obama. Nell’ultima fase della sua vita politica si è ripiegato molto su sé stesso, anche per i suoi guai giudiziari. Tende a identificare lo Stato con sé stesso. Un po’ come Luigi XIV, il Re Sole“.

– Scendiamo nell’attualità e parliamo della contestata riforma della giustizia di Netanyahu, un atto che ha scatenato le piazze in Israele: cosa prevede esattamente e perché è così osteggiata?
La sua riforma della giustizia, che si articola in diverse proposte di legge, prevede che l’apparato giudiziario si sottometta al controllo della politica. Attribuisce alla coalizione al potere la maggioranza nel Comitato incaricato di eleggere i giudici, restringe il potere della Corte suprema permettendo che il Parlamento ignori le sue sentenze, con la clausola di annullamento. Ancora, restringe drasticamente il potere della Corte di applicare il cosiddetto parere di ragionevolezza sugli atti del Governo. Inoltre consente ai ministri di nominare autonomamente i consulenti legali. La protesta è scoppiata a fine gennaio, quando la riforma è stata annunciata, ma poi ha assunto dimensioni enormi a marzo, quando il ministro della Difesa, Gallant, proclamò che per far passare una riforma così poco digeribile sarebbe stato necessario il massimo consenso nel Paese. Netanyahu lo licenziò, pronto ad andare avanti a ogni costo. Ma poi il muro della incontenibile protesta e la condanna di Biden e dei principali leader europei lo hanno costretto a fare marcia indietro, ritirando il licenziamento di Gallant e congelando la riforma. Su iniziativa del Presidente Herzog, si sono aperte trattative tra maggioranza e opposizione per arrivare a un più vasto consenso, ma vi sono stati diversi incagli e oro queste sono congelate. Il Governo ha manifestato l’intenzione di riprendere la discussione per approvare alcuni punti della riforma, come quello sul parere di ragionevolezza della Corte, e le proteste, che vanno avanti oramai da oltre sei mesi sono riesplose. Sabato scorso, oltre 250.000 persone hanno manifestato in tutto il paese“.

– La questione israelo-palestinese sotto Netanyahu: come Israele sta fronteggiando il terrorismo palestinese e che politiche sta attuando a proposito dei coloni?
E’ di questa mattina la notizia di una grossa operazione militare in corso a Jenin, che appare destinata a durare molti giorni e si ripropone di ripulire la zona dalle sue infrastrutture terroristiche. Sono stati effettuati oltre 10 bombardamenti aerei, mentre centinaia di soldati e mezzi corazzati rastrellavano le case della città e il campo profughi. Decine gli arresti e sette finora i palestinesi uccisi. Non si esclude che l’operazione possa allargarsi ad altre città dell’area, come Nablus, ove sono attive altre milizie, come i Lion’s Den (la tana dei Leoni), che hanno moltiplicato da tempo gli attacchi e gli attentati anti israeliani.
La realtà è che oramai da tempo tutto il Nord della Cisgiordania è fuori controllo, ed è diventato uno straordinario humus di cellule terroriste. Lo Jihad Islamico e Hamas finanziano ed armano le milizie di giovani che si sono formate nelle principali città, ed operano direttamente. Anche l’Iran ha intensificato il suo intervento diretto. Al contrario, l’Autorità Nazionale Palestinese è sostanzialmente assente e non controlla più niente, e molti uomini appartenenti alle milizie di Al Fatah si sono uniti ai gruppi di resistenza armata e sono pagati insieme a loro.
All’escalation terroristica Israele ha risposto con un’escalation repressiva, spesso in stile “sharoniano”, fino a quella avviata questa mattina, che però incontra una resistenza sempre più forte. E questo innesca un’altra escalation: quella dell’uso dei mezzi militari, con l’uso di bombardamenti, missili, droni, omicidi mirati, finora usati solo a Gaza. Abbiamo poi una terza escalation: riguarda le violenze dei coloni – in particolar modo dei “giovani delle colline”, abitanti degli avamposti illegali israeliani – nei confronti dei palestinesi. Parliamo di pogrom con cui puniscono i villaggi da cui provengono gli attacchi terroristici.
C’è da dire che il loro comportamento spacca la destra: a Netanyahu questa incontrollata violenza dei coloni non piace, ha ripetutamente affermato che compete alle forze di sicurezza contrastare il terrorismo; per gli esponenti più estremisti del suo governo, come il Ministro della Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir, invece, si tratta di “bravi giovani” (sweet young), se non addirittura di eroi, da lodare e incoraggiare.
Un altro aspetto è la politica di rilancio degli insediamenti adottata dal Governo, che è stata aspramente criticata dalla Amministrazione Biden e dai principali leader europei, a cominciare da Macron e Scholtz: ancora di recente, è stata approvata la costruzione di oltre 5000 nuove unità abitative negli insediamenti, e Bezalel Smotrich, che è anche Ministro all’interno del Ministero della Difesa con competenza per l’Amministrazione Civile in Cisgiordania, ha dato disposizioni per apprestare infrastrutture in Cisgiordania atte ad accogliere 500.000 nuovi coloni nei prossimi anni. Una politica che renderà impossibile realizzare l’obbiettivo di una soluzione a due stati del conflitto
“.

– Quali sono i rapporti tra Netanyahu e Biden?
Non certo idilliaci, in realtà, per tutti i motivi già detti. Biden ha duramente criticato Netanyahu per il suo proposito di attentare al principio della separazione dei poteri dello Stato, e la sua politica verso i palestinesi. A oggi Netanyahu è il primo premier israeliano a non essere stato invitato alla Casa Bianca a sei mesi dall’insediamento del suo ultimo governo“.

– Che cosa rappresentano gli accordi di Abramo e quali le conseguenze nei rapporti con i paesi arabi?
Gli accordi di Abramo sono stati stipulati come si è detto nell’ultima fase della presidenza Trump (con Bahrein, Emirati Arabi, Marocco e Sudan). Essi rappresentano una svolta perché, per la prima volta con essi i Paesi arabi non hanno subordinato al riconoscimento di uno stato palestinese la possibilità di una riorganizzazione dei loro rapporti diplomatici con Israele. Ora la scommessa, ripresa dagli USA, è allargare questi accordi all’Arabia Saudita, così da completare il quadro. Ma i sauditi, e soprattutto il Principe ereditario Mohammed Bin Salman (MBS), oltre ad un rilancio del processo diplomatico verso i palestinesi e comunque ad iniziative volte a migliorarne la condizione, vogliono contropartite più sostanziose: lo sblocco delle vendite di armi decise da Trump per molti miliardi di dollari e bloccate da Biden, un accordo di difesa contro le minacce dell’Iran, la fornitura di due centrali nucleari per energia civile. Richieste queste che difficilmente potrebbero passare nello stesso Congresso USA. D’altronde, i rapporti tra i sauditi e gli USA si sono gravemente deteriorati con l’avvento dell’Amministrazione Biden, che in campagna elettorale aveva dichiarato di voler fare dell’Arabia Saudita uno “Stato paria”, a causa dell’omicidio del giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul, su mandato di MBS, e per la sistematica violazione dei diritti umani nel paese. Ma, più in generale, i sauditi percepiscono lo spostamento delle priorità USA verso l’Estremo Oriente e temono di essere abbandonati di fronte alla minaccia iraniana. Per questo hanno deciso di riallacciare i rapporti diplomatici con questo paese (come avevano già fatto precedentemente l’UAE e il Bahrein), grazie alla mediazione cinese“.

– Quali i rapporti con la Cina? E quali quelli con la Russia?
A luglio è prevista una visita di Stato di Netanyahu in Cina, una cosa che gli Usa non guardano in modo particolarmente benevolo. Il che è facilmente spiegabile: la Cina è ormai diventato il nuovo grande competitor degli Stati Uniti, una potenza in grado di riempire i vuoti, in Asia ed anche in Medio Oriente, lasciati dal crollo del gigante sovietico e dalle attuali difficoltà della Russia. Il suo essere ago della bilancia politica e geopolitica nel continente dove è iniziata la storia umana è plasticamente rappresentato dal ruolo centrale nella conclusione dell’accordo diplomatico tra Arabia Saudita e Iran: i due Stati erano in pessimi rapporti dai tempi di Khomeini, e avevano rotto le relazioni nel 2018. Non è un mistero che Pechino abbia una significativa presenza anche in Israele: Essa possiede un intero molo per container nel porto di Haifa. E portano la firma cinese numerose opere infrastrutturali (che si prestano a un uso misto civile-militare).
Per quanto riguarda la Russia Israele, come la maggior parte dei Paesi del Medio Oriente, ha condannato l’invasione dell’Ucraina, tuttavia, come gli altri Stati mediorientali, non ha applicato sanzioni contro il Cremlino. Per Israele è vitale non far deteriorare i rapporti con la Russia, per mantenere libertà operativa per continuare a bombardare obbiettivi strategici degli iraniani e dei loro alleati in Siria
“.

– E con l’Iran come vanno le cose?
Per gli Usa l’Iran non è il grande nemico, né una minaccia di vita o di morte. Non dispone di missili intercontinentali in grado di colpire i suoi territori. Al contrario di Israele che è, invece, un possibile bersaglio. Più nello specifico, l’Iran può attuare contro Israele due tipi di minacce: quella missilistico-dronistica ed anche sottomarina, e quella che si poggia su una deterrenza di profondità, basata sui suoi alleati: gli Houthi in Yemen, la Siria, Hezbollah in Libano, lo Jihad islamico e anche Hamas a Gaza ed ora anche in Cisgiordania. Una strategia multifronte, molto pericolosa. Poi c’è lo sviluppo della ricerca nucleare: dopo l’abbandono USA dello JCPOA, deciso da Trump nel 2018, Teheran è arrivata ad arricchire l’uranio fino all’84%, ad un passo dalla soglia del 90% necessaria per costruire un’arma nucleare (Lo JCPOA poneva al contrario un limite del 3,67%). Di sicuro l’antica terra dei satrapi ha oramai raggiunto la fase di un threshold state, uno stato alla soglia del nucleare. Proprio per questo Biden ha tentato nelle ultime settimane di correre ai ripari, raggiungendo con l’Iran, un mini-accordo che prevede il limite al 60% dell’arricchimento dell’uranio, ed il blocco nella costruzione di centrifughe di seconda generazione. Netanyahu, però, ha espresso contrarietà nei confronti di esso, così come lo aveva espresso sull’accordo originale, perché a suo parere rallentare l’avanzata del regime degli ayatollah verso il nucleare non significa eliminare il pericolo futuro di un’atomica iraniana. Non ha tuttavia scatenato una campagna contro di esso, come nel 2015, anche per non far cadere il difficile tentativo USA in atto con i sauditi, per migliorare i loro rapporti con lo Stato ebraico e estendere anche a loro gli accordi di Abramo“.