La Turchia concede le basi per combattere l’Isis. E sull’obelisco di San Pietro “compare” la bandiera nera

di Guido Keller

Dabio bandiera sul vaticanoFinalmente la Turchia ha dato un segno concreto della sua volontà di contribuire allo sforzo della coalizione internazionale contro l’Isis, tanto che Susan Rice, la principale consigliera per la sicurezza di Obama, ha parlato di “un nuovo impegno che apprezziamo molto”: Ankara ha infatti concesso l’uso delle proprie basi per addestrare i combattenti curdi, come pure i propri aeroporti per far decollare i caccia diretti contro le posizioni jihadiste.
Da giorni Stati Uniti e Nato cercano di vincere la titubanza della Turchia a prendere parte attivamente alla lotta contro lo Stato Islamico, una posizione di Ankara motivata ufficialmente con la richiesta di una No fly zone di venti chilometri in territorio Siriano a ridosso del confine turco e della deposizione di Bashar al-Assad. Per una partecipazione via terra è stata inoltre richiesta dal governo Davutoglu (in realtà dal neo-presidente Erdogan) la partecipazione di militari anche di altri paesi della coalizione: così, mentre i curdi resistono eroicamente a Kobane e ormai i combattimenti nella città sono casa per casa, 10mila militari turchi restano immobili al di là del confine, a poche centinaia di metri dal conflitto, limitandosi a respingere i molti profughi.
Più probabilmente alla base della “pigrizia” di Ankara vi sono chissà quali accordi con l’Isis, che di recente ha liberato 49 ostaggi e che continua a portare i propri feriti jihadisti negli ospedali pubblici in Turchia; non va inoltre dimenticato che la Turchia, come l’Occidente e le monarchie del Golfo (in particolare il Qatar) hanno partecipato attivamente alla nascita e allo sviluppo dell’Isis quale arma per combattere al-Assad e che proprio dal territorio turco sono passati fino a poco fa i combattenti jihadisti provenienti dall’Occidente, dal Nordafrica e dal Caucaso, come pure il flusso di armi e di denaro a loro diretto.
In particolare sono stati il Segretario generale della Nato, Jens Stonltenberg, e il Segretario alla Difesa Usa, Chuck Hagel, a recarsi ad Ankara per sollecitare l’intervento turco, tant’è che Hagel ha sempre visto l’uso delle basi militari turche come un elemento chiave della lotta di Washington all’Isis. I dettagli dell’accordo devono ancora essere definiti, ma un team di militari americani si recherà in Turchia proprio questa settimana per ultimare l’intesa. Fino ad oggi per i raid sono state usate le basi aeree di Emirati, Kuwait e Qatar, come pure quella di Incirlik (Turchia) della Nato, ma l’addestramento di uomini richiede l’impiego di basi più vicine al conflitto, da dove è possibile intervenire via terra con rapidità.
Riguardo a Kobane il Segretario di Stato Usa, John Kerry, ha parlato oggi di “situazione preoccupante”, ovvero di “una tragedia, ma comunque una questione che va affrontata nel complesso della strategia della coalizione”, anche se richiederà tempo.
Sul fronte propagandistico c’è da registrare un nuovo messaggio del britannico John Cantlie, ostaggio dell’Isis da due anni, il quale ha parlato nel video della grande esperienza dei combattenti jihadisti e ha detto che un’operazione “un’operazione chirurgica, una breve, pulita operazione senza sporcarsi le mani avrà una sorpresa orribile”. La rivista on line “Dabiq”, usata dal Califfato come strumento di diffusione, ha pubblicato in copertina un fotomontaggio con l’obelisco di Piazza San Pietro in Vaticano con alla sommità la bandiera nera dell’Isis e il titolo “Crociata fallita”, evidentemente con riferimento ai raid della coalizione a guida Usa contro l’Isis. Già lo scorso 22 settembre il portavoce dello Stato Islamico, Abu Muhammad al-Adnani, aveva minacciato di “conquistare Roma e spezzare le croci con il permesso di Allah”: si tratta di messaggi che richiamano islamici radicali e che generano inquietudine nell’opinione pubblica occidentale, e che, proprio per questo, necessitano di una rapidità e di un’efficacia d’intervento che fino ad oggi appare non esservi stata.
Il leader dell’Isis, Abu Bakr al-Baghdadi, si è servito di Twitter per ordinare alle cellule residenti negli Usa di uccidere i responsabili del popolare social network, affermando che “devono morire”.
Dick Costolo, amministratore delegato di Twitter, ha voluto ricordare che il sistema di messaggistica “è certamente uno strumento per cambiamenti positivi in molti Paesi del mondo”, ma che ci sono anche persone che lo usano per scopi nefasti, e questo “è contro i nostri termini di servizio e contro la legge in molti Paesi. Quando ce ne accorgiamo, noi chiudiamo i loro account, in maniera molto attiva”.