Libia. Tra i prigionieri dell’esercito di Haftar

di Vanessa Tomassini-

TRIPOLI. Ci troviamo ad Ain Zara, sobborgo ad una ventina di kilometri dalla capitale Tripoli, da giorni fronte di violenti combattimenti tra le forze allineate al Governo di Accordo Nazionale e quelle del maresciallo Khalifa Haftar. Siamo una decina di giornalisti, la maggior parte italiani, su un piccolo autobus organizzato dall’Ufficio media del Ministero degli Esteri del Governo di Accordo Nazionale (GNA), scortato nel traffico da un Toyota delle forze del ministero dell’Interno, che ci tiene a smentire alcune false dichiarazioni rilasciate dall’inizio della nuova guerra dalla fazione opposta, in particolare, dal portavoce di Khalifa Haftar, Ahmed al-Mismari, che rivendicava il controllo di alcuni punti strategici come Khallet al-Furjan e, più avanti, la porta 27 tra Warshefana e Zawiya, in realtà sotto l’autorità delle agenzie di sicurezza di Tripoli.
E’ molto difficile riportare questa guerra senza cadere nei meccanismi della propaganda, dei rumors e delle dichiarazioni, rilasciate a volte troppo presto, o inaccurate per la mancanza di informazioni, per questo, ci limiteremo a riportare la situazione che ci viene mostrata, senza fronzoli e ulteriori commenti. Una stradina nella vasta campagna, conduce ad una struttura bianca, di fronte a noi un cancello nero ed un murales con il logo del Ministero della Giustizia, è il Centro di detenzione e riabilitazione di al-Ruwemi. “Al momento abbiamo arrestato, dall’inizio degli scontri, 75 uomini delle milizie di Khalifa Haftar. Almeno 14 o 15 sembrano minorenni, anche se dichiarano di avere più di 17 anni”. A parlare è il capitano Eyad al-Jahawi, aspetto fiero nella sua divisa, 32 anni, originario del quartiere tripolino di Souq al-Jouma.
Quando chiediamo la data di nascita esatta, insistendo, Eyad ci dice che “Ora che vedrà le loro facce, capirà che si tratta di bambini. Non sappiamo la data di nascita perchè non hanno documenti con loro”. Sono in buona salute, anche se impietriti dalla paura ed il fatto di essere mostrati ai giornalisti come trofei, sicuramente non migliora il loro stato d’animo. “Sono stati catturati da tre o quattro giorni ed arrivano da diverse città della Libia, alcuni dalla regione occidentale, altri dalla Cirenaica”. Prosegue il capitano al-Jahawi, prima di mostrarci il centro medico della prigione. “Abbiamo due sale operatorie, una per i feriti normali, l’altra per i pazienti affetti da malattie particolari. Qui vengono trattati sia i prigionieri che gli uomini del nostro battaglione. Dall’inizio della guerra, abbiamo perso 4 persone e 10 di noi sono stati feriti”.
Dopo averci mostrato le attrezzature mediche, compresa una poltrona per dentisti, gli uomini del capitano Eyad ci aprono gli alti cancelli dell’Istituto di detenzione e riabilitazione per farci vedere il resto degli ostaggi, già visitati dal personale delle Nazioni Unite. E’ in questo momento che tra le file di quegli uomini in uniforme, faccia al muro, uno cade all’indietro perdendo i sensi. Viene immediatamente soccorso, caricato su una barella e fatto stendere sul lettino del piccolo centro medico, dove c’è pronto un medico che ci rassicura sulle sue condizioni. Mohammed, di Zawiya, sta bene, si è trattato solo di un po’ di tensione.

Zawiya, 116 soldati e diversi mezzi di Haftar catturati

di Vanessa Tomassini

TRIPOLI. Abbiamo visitato il centro di detenzione di Firka al Hula, a Zawiya, capoluogo dell’omonimo distretto, a meno di 40 chilometri ad ovest di Tripoli. Qui sono detenuti dalle forze del Ministero dell’Interno del Governo di Accordo Nazionale 116 uomini delle linee del maresciallo Khalifa Haftar, desiderosi di prendere il controllo della capitale. Tra questi, rilasciato alla Libyan Red Crescent dopo un tentato suicidio, c’è anche un giovane ragazzo catturato durante gli scontri alla porta 27 tra Warshefana e Zawiya. Ci dice che si è unito alle forze del generale Haftar per soldi, sebbene al momento non abbia ancora ricevuto nulla. Soffre di diversi problemi e anche suo zio è stato catturato dalle forze governative e si trova nello stesso centro di detenzione.
Un altro seduto a terra, insieme agli altri, dice di avere 17 anni. “Ho attaccato Tripoli, perché siamo l’esercito e controlleremo Tripoli”. Sam arriva dalla regione occidentale, dice che quando uscirà da qui riprenderà gli studi. Molti dei prigionieri, che qui vengono trattati con rispetto e secondo gli standard internazionali che regolano il conflitto, affermano di non avere mai ricevuto un training militare idoneo. “Sono stato mandato in battaglia dopo solamente 21 giorni di preparazione“. Nel piazzale del carcere, ci sono almeno 17 mezzi equipaggiati con mitragliatrici pesanti, sottratti alla coalizione di Haftar. Sono nuovissimi, uno segna meno di 4mila chilometri. Ora le forze che proteggono Tripoli li stanno verniciando di nero per usarli contro gli uomini del comando generale di Bengasi.
Va ricordato che molti giovani si sono uniti spontaneamente all’esercito orientale per ragione ideologiche, ma soprattutto economiche, come ci confermano i comandanti dei battaglioni LNA, ora in carcere. “Siamo di Tripoli e Sabratha – ci dicono – e lavoravamo per il Ministro della Difesa del Governo di Serraj, prima di passare dalla parte di Haftar, formando un piccolo gruppo di persone”. Uno dei comandanti 3 stelle afferma che “A Tripoli non mi sentivo nulla, non ero rispettato; ho pensato che con Haftar sarei diventato qualcuno. Penso che Haftar possa mettere a posto le cose, come quando c’era Gheddafi”. Entrambi hanno confermato di non aver mai visto consulenti francesi o contractor stranieri a Sabratha, precisando di prendere ordini dai loro diretti superiori, in contatto con la regione orientale. “Il nostro comandante è Omar Magouri. Qui ci sentiamo a casa, siamo tutti fratelli”. Ed è proprio questo l’aspetto più triste di questa guerra -come spesso abbiamo sottolineato – il fatto che i libici si stanno uccidendo fra loro al fronte, ma almeno nelle prigioni l’umanità e lo spirito di fratellanza sembra resistere. Tanto che sono consentite le visite dei familiari. Infine Yousef Barooni ci dice: “Se Haftar dovesse venire qui, se dovesse entrare a Tripoli, io preferirei fuggire in un altro Paese. Per quale motivo abbiamo combattuto Gheddafi? Lui era meglio di Haftar”. Quando gli chiediamo se c’è almeno un motivo che possa unirli all’uomo forte di Tobruk, come il terrorismo, la risposta è netta: “Non c’è terrorismo a Tripoli, questa è solo una propaganda di Haftar”. Per quanto riguarda le milizie, l’ufficiale ci confessa che “negli ultimi due anni, sono stati fatti dei passi avanti. Piano piano le milizie sono state eliminate o inglobate nelle agenzie del Ministero dell’Interno”. Infine ci ha fatto notare qual’è la differenza tra le milizie e un vero esercito. “Ha visto come vengono trattati qui i prigionieri. Se noi veniamo catturati dalle milizie di Haftar, veniamo uccisi. Abbiamo un amico che è stato preso in Azizia, è stato ammazzato e bruciato. Ecco la differenza“.