Sanzioni con la Russia e economia italiana

di Dario Rivolta* –

sanzioni russia agrumiMentre la crisi politica in Ucraina non si risolve e a turno i leader occidentali ripropongono la volontà che Kiev entri al più presto nell’orbita occidentale, le sanzioni economiche volute dagli Usa e applicate anche dagli europei cominciano a dare i loro frutti avvelenati.
La prima tranche riguardava solamente il rifiuto del visto e il congelamento delle proprietà di alcuni personaggi russi e le conseguenze sugli interscambi furono irrisorie ma, quando i divieti si sono estesi alle operazioni finanziarie e commerciali, un numero considerevole di prodotti, soprattutto i cosiddetti beni sensibili, sono diventati impossibili da esportare. A sua volta, come naturale, la Russia ha risposto impedendo l’ingresso sul proprio territorio di altre merci, cominciando dai prodotti agricoli.
Come dicevamo, le sanzioni sono state volute innanzitutto dagli americani ed è stata la loro pressione a obbligare (parole del vice-presidente Usa Biden) anche i Paesi europei più reticenti a farle proprie. La cosa più importante però è che l’economia statunitense ne è toccata solo marginalmente mentre chi soffre particolarmente e in misura vieppiù consistente a secondo del settore, sono le aziende della vecchia Europa. La nostra SACE (Servizi Assicurativi del Commercio Estero) stima che l’export europeo di beni e servizi verso la Russia abbia raggiunto negli ultimi anni i 150 miliardi di euro costituiti, in gran parte, da prodotti della meccanica strumentale, chimici, agro-alimentari e mezzi di trasporto. Anche nel settore dei servizi le esportazioni europee erano aumentate negli ultimi quattro anni fino quasi a raggiungere i 30 miliardi di euro. In questo quadro, l’Italia, uno dei principali partner commerciali della Russia, è uno dei Paesi più toccati dalle sanzioni. Dopo la Germania, infatti, l’Italia è il secondo partner europeo e, a livello mondiale, il quinto. Nonostante la nostra bilancia commerciale sia deficitaria nel rapporto di uno a tre, le nostre esportazioni raggiungono i 10 miliardi di euro e sono principalmente costituite da macchinari, abbigliamento, arredamento e mezzi di trasporto, mentre le nostre importazioni riguardano soprattutto i prodotti energetici, indispensabili per “nutrire” le nostre aziende. La crisi economica in Russia precedente alle sanzioni aveva già intaccato di quasi l’8% il nostro fatturato destinato a quel Paese ma la previsione per il 2014, proprio a causa delle limitazioni imposte, è di un successivo calo, superiore al 10%.
Ciò che preoccupa il mondo delle imprese italiane non è il rischio che la Russia tagli i rifornimenti di gas e petrolio, anche se tale ipotesi non può essere completamente esclusa. Tutti sappiamo che i russi non avrebbero alcun interesse ad eliminare una voce importante del loro budget statale ma, poiché il grosso degli attuali rifornimenti ci arriva attraverso l’Ucraina, se i due Paesi non trovassero un accordo, gli ucraini potrebbero “rubare” il gas che transita sul loro territorio, così come avvenne nella crisi precedente. A quel punto Mosca, seppur malvolentieri, sarebbe obbligata a interrompere le consegne.
Qualcuno pensa che, comunque, si tratti solo di una crisi passeggera e che, trovata presto una soluzione di compromesso, si possa ricominciare come prima. Purtroppo chi è nel commercio internazionale sa che recuperare vecchie posizioni, una volta perdute, è più difficile della prima volta perché altri concorrenti possono, nel frattempo essersi installati sul mercato. Se ci si volesse prendere la briga di controllare il numero di passeggeri in partenza da Brasile, Sud Africa, Marocco e India con destinazione Russia, si scoprirebbe che la loro cifra è di parecchio aumentata. Poiché è difficile immaginare che si tratti di turisti, il rischio che nuovi prodotti prendano il posto dei nostri è molto grande. Ma a chi e a che cosa serve il meccanismo che noi occidentali abbiamo innescato? Quali i principi irrinunciabili che pretendiamo di voler difendere? Sarebbe bene che il nostro e gli altri governi europei sentissero le opinioni di un po’ di aziende che avevano trovato un certo respiro alla crisi interna proprio esportando su quel mercato. Forse qualcuno potrebbe cominciare a ripensarci.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali