Trump e la sua politica estera

di Dario Rivolta * –

Voglio premettere di essere disgustato dal modo in cui i democratici americani non hanno digerito la sconfitta che portò Trump alla presidenza degli Stati Uniti. A volte la polemica politica porta a contrapposizioni dure e implica l’utilizzo di mezzi non sempre ortodossi per cercare di riconquistare il sostegno dell’elettorato. Tuttavia dal 2016 a oggi le sinistre americane di varia gradazione sembrano non aver conosciuto il senso del limite e sono spesso ricorsi alla diffamazione, fino ad arrivare all’accusa di tradimento verso il proprio Paese per il Presidente in carica.
Fatta questa premessa, doverosa per escludere ogni sospetto di partigianeria preconcetta, devo comunque confessare che il mio giudizio su Trump non è certo lusinghiero. Visibilmente l’uomo non è un pozzo di scienza o cultura eppure non è il primo politico a ricoprire un alto livello senza quel retroterra. Ciò che lo distingue in particolare da alcuni suoi pari in varie parti del mondo è uno stile di comportamento altalenante, l’essere totalmente alieno alle procedure della diplomazia e assumere atteggiamenti molto più simili a quelli di un qualunque uomo d’affari che di un politico con importanti responsabilità verso il mondo intero.
A parte le decisioni di politica interna su cui lascio volentieri agli elettori americani una valutazione, è la sua politica estera che mi sembra una summa d’incoerenza ai limiti, chiedo scusa, di una stupidità che, spero, sia solo apparente.
Sulla scia del suo predecessore, aveva identificato la zona del Pacifico come un’assoluta priorità e identificato nella Cina il più grande avversario della potenza americana nel mondo per gli anni futuri (visione condivisa anche dai suoi avversari interni). Obama, proprio con questa visione strategica, aveva cercato di porre argini al potere della Cina in Asia dando vita al TPP (Trans Pacific Partnership). Si trattava di un accordo formalmente solo commerciale tra la maggior parte degli Stati che circondano la Cina. Alcuni di loro erano già alleati storici degli Stati Uniti. L’obiettivo evidente era di porre un limite al dilagare dell’economia cinese in tutta l’area basandosi su accordi di libero scambio e fissando normative di vario genere cui tutti i partner dovevano attenersi. Ciò implicava anche qualche sacrificio economico per gli Stati Uniti, il Paese più grande e più ricco tra i membri dell’intesa, ma, in compenso, sarebbe stato creato una specie di “cordone sanitario” politico. Ebbene, appena diventato Presidente, Trump si ritirò dal TPP lasciando abbandonati a e stessi tutti coloro che già lo avevano ratificato (a volte dovendo superare aspri dibattiti interni). Nonostante gli altri membri abbiano deciso di andare avanti tra di loro, l’assenza del partner più forte indeboliva l’operazione, fino al punto che la Cina si permise, pur sapendolo impossibile, di ventilare l’ipotesi di una sua adesione al nuovo accordo.
Come non bastasse (ma qui non si può attribuire tutta la colpa a Trump che ne aveva, invece, capito l’errore) la politica estera americana continuò inspiegabilmente a considerare la Russia come nemico strategico. Si tratta di un errore macroscopico poiché la Russia, nonostante un ruolo internazionale ricostruito grazie all’intelligenza politica di Putin e del suo ottimo Ministro degli Esteri Lavrov, non è né potrà essere un vero competitor sia per motivi economici, sia per il numero degli abitanti. Da sola, qualunque siano le sue velleità, non sarà più in grado di insidiare il ruolo egemonico degli USA. La guerra contemporanea verso Pechino e Mosca è stata una benedizione per i cinesi che hanno così potuto contare su tutte le enormi quantità di materie prime russe, indispensabili per alimentare il proprio sviluppo economico, base imprescindibile per quello militare. La differenza di capacità finanziaria e produttiva tra la Cina e la Russia non può portare ad altro che a una prevalenza della prima sulla seconda e ciò nonostante a Mosca la cosa non sia vista per nulla con piacere. Purtroppo per Putin le sanzioni economiche occidentali imposte da Washington e dagli alleati non gli hanno lasciato alternative.

Donald Trump.

Se Trump avesse letto Sun Tze, avrebbe saputo che occorre fare di tutto per trovare alleati co-interessati e impedire che il “nemico” possa costruirsi una propria alleanza. Malauguratamente letture di tale tipo sembrano gli siano ostiche e, mentre “dichiarava guerra” alla Cina, ha aperto querelle commerciali con il Giappone e la Corea del Sud, naturali nemici di Pechino. Ha perfino scavalcato Seul nell’improvvido tentativo di arrivare a un accordo con la Corea del Nord dimostrando, tra l’altro, di non capire nulla della mentalità asiatica e finendo, con i suoi ridicoli tentativi di impostare un rapporto di fiducia personale con Kim Jong-un, col diventare uno zimbello del dittatore.
Non pago dei danni accumulatisi in Estremo Oriente, ha cercato di fare altrettanto in Medio Oriente.
Soprattutto al fine di equilibrare i rapporti di forza locali in quella parte del mondo prevedendo il futuro disimpegno americano, Obama aveva sottoscritto un accordo con l’Iran, appoggiato in questo dagli europei e dall’ONU. Da lungo tempo, in quella parte del mondo iraniani, turchi e sauditi puntano a diventare il Paese leader, ognuno in competizione con l’altro. La presenza di Israele, tradizionalmente amico degli americani, completava il quadro portando a una situazione complessiva di deterrenza reciproca tra le quattro potenze. Ciò avrebbe permesso agli Stati Uniti di assicurarsi una certa tranquillità nella zona senza dover continuare a mantenere in loco un enorme quantità di truppe e mezzi militari, dopo che l’autosufficienza energetica raggiunta dagli Stati Uniti non rendeva più la cosa così indispensabile per loro. Aver denunciato il JCPOA e reintrodotto le sanzioni contro l’Iran ha accontentato sauditi e israeliani ma ha reso la situazione molto più instabile. Quale sia stato il vero obiettivo nel voler mettere in ginocchio l’Iran non è chiaro. Le dichiarazioni del presidente riguarderebbero la volontà di assicurarsi che l’Iran non possa diventare mai una potenza nucleare ma ciò era nei fatti già previsto dall’accordo sottoscritto e convalidato dall’ONU. Diversamente da lui, il suo consigliere per la Sicurezza nazionale aveva dichiarato che il vero obiettivo era un “cambiamento di regime”. Un terzo motivo era forse quello di mettere un freno all’espansione iraniana in Iraq, Siria, Libano e Yemen. Qualunque sia stata la ragione che ha spinto alla rottura dell’accordo, il risultato sembra essere un fallimento su tutti i fronti. Quando il JCPOA fu firmato la popolazione iraniana aveva accolto la notizia con un grande entusiasmo e chiunque conosca quel Paese e l’abbia visitato prima e dopo quella data, ha potuto notare come i sentimenti della stragrande maggioranza della popolazione si orientassero sempre di più verso un’insofferenza nei confronti del regime degli ayatollah. La disdetta americana ha indebolito tutte le locali forze riformatrici, rafforzato il potere delle Guardie Rivoluzionarie e delusa tutta quella popolazione che, guardando ad Occidente, sperava in un prossimo, anche se non immediato, atterraggio verso una democrazia non teocratica. Oggi, l’arricchimento dell’uranio è ricominciato e, se non altro come ritorsione nei confronti delle azioni americane, gli interventi dei “proxi” iraniani fuori dal Paese sono aumentati. E’ vero che l’Iran sta soffrendo pesantemente per le sanzioni ma, anche li, la Cina si è fatta avanti come possibile “salvatore” alternativo. Non è un caso che, magari sotto forma di contrabbando, sia aumentata la vendita di petrolio iraniano ai cinesi.
Parlare dell’aumento dei sentimenti anti americana tra le popolazioni arabe dopo la scelta trumpiana di spalleggiare Netanyahu nell’idea di annettersi la Cisgiordania è fin troppo facile. E’ pur vero che il progetto dei due Stati era oramai in impasse e che oggi la partita si è riaperta ma, almeno per ora, l’unico risultato è un’intesa tra Israele e i sauditi in chiave anti-turca. E’ presto poter prevedere come andrà a finire, ma intanto si è portata altra acqua all’avvicinamento tattico tra Ankara a Mosca.
Per ciò che ci riguarda come italiani ed europei, la peggiore politica di Trump è quella nei confronti dell’Europa e dalla Nato. Il desiderio di boicottare una maggiore integrazione dell’Unione Europea e di impedire il dialogo politico ed economico con la Russia non è nuovo a Washington, ma nessuno prima di lui aveva usato affermazioni e toni così espliciti. Ha apertamente spalleggiato Boris Johnson promettendogli un accordo commerciale previlegiato con gli USA appena la Gran Bretagna fosse uscita dall’Unione. Ha incoraggiato le forze le forze antieuropee in Italia e incoraggiato i polacchi nei loro sentimenti contro Mosca e contro Bruxelles. Ha perfino dichiarato di non ritenere vincolante l’articolo 5 della NATO, quello che obbliga tutti gli Stati a intervenire in aiuto di uno di loro che fosse attaccato da forze terze. Con la Germania poi è quasi una guerra aperta. Una delle motivazioni ufficiali è la stessa rivolta ad altri membri che, come Berlino, non stanno dedicando il 2% del proprio PIL alle spese militari. In realtà con i tedeschi il vero motivo del contendere è contemporaneamente politico e commerciale. Quello politico riguarda la decisione tedesca di continuare con il progetto North Stream II, quello economico tocca la bilancia commerciale troppo favorevole a Berlino. Anche in questo caso le dichiarazioni di Trump sono spesso contraddittorie o addirittura contestate dai suoi stessi collaboratori. L’ultima “sparata” riguarda la volontà di ritirare almeno 10mila soldati delle truppe americane presenti attualmente in Germania. Questa dichiarazione è stata accompagnata da un’informale promessa al leader del partito conservatore polacco Legge E Giustizia di ridispiegarli in Polonia. L’operazione, come spesso succede dopo le dichiarazioni del presidente, sarà difficilmente realizzata perché occorrerebbero anni per trasferire tutte le facilities e i supporti adesso dislocati nella base militare di Stoccarda. In questa locazione, infatti, si concentrano il comando europeo delle truppe americane, il coordinamento di tutte le forze militari dei 51 Paesi della Nato e di quelli non Nato, il sostegno logistico per le truppe americane in Nigeria e il supporto delle operazioni francesi in Mali. Senza contare il sostegno logistico e di training per le operazioni americane in Africa, Iraq e Afghanistan. Oltre a Stoccarda un importante base militare americana in Germania è a Ramstein. La minaccia del ritiro per ora resta solo una minaccia che vorrebbe essere una pressione ritorsiva contro i comportamenti “non allineati” dei tedeschi A noi Italiani, dopo che gli interventi americani ci hanno impedito di continuare nel progetto South Stream, il North Stream II non da particolarmente piacere perché farebbe della Germania quell’hub gasifero che avrebbe potuto nostro qualora fosse stato realizzato il South Stream. Tuttavia, nessun europeo può provare piacere nel vedere come da oltreoceano qualcuno ricatti il nostro continente. Di certo, se davvero e nonostante la già dichiarata opposizione del Pentagono gli americani trasferissero le proprie truppe dalla Germania alla Polonia questo suonerebbe come un ulteriore segnale di aggressività contro Mosca e non farebbe che aumentare i sentimenti anti Nato già presenti in Germania.
E’ indubbio che ogni politico abbia un proprio stile non sempre lineare nel perseguire i suoi obiettivi ma l’impressione suscitata dalla politica estera di Trump è di una grande incoerenza basata su impreparazione e scarsa conoscenza del mondo.

(Official White House Photo by Joyce N. Boghosian).

Alla fine della seconda guerra mondiale quando il generale Eisenhower assunse l’incarico presidenziale, l’allora ministro degli Esteri era John Foster Dulles. Costui aveva silurato il capo dei diplomatici statunitensi a Mosca, George Kennan per aver proposto il “contenimento” dell’Unione Sovietica. Dulles al contrario propendeva per un atteggiamento molto più duro e aggressivo, col rischio di scatenare una nuova guerra, ora perfino atomica. Eisenhower, pur non essendo per niente estraneo ai temi di politica internazionale, decise di farsi fare un vero e proprio briefing da un gruppo di esperti, ivi inclusi il Dulles e il Kennan. Stette ad ascoltarli dibattere posizioni tra loro contrastanti e solo dopo un intero giorno di discussioni anche accese prese le sue decisioni. La sua scelta, evidentemente ben ponderata, ha consentito che la guerra rimanesse “fredda” per almeno 35 anni e oggi possiamo dire che ebbe ragione.
Forse anche Trump farebbe meglio a sposare l’umiltà di quel suo predecessore, a studiare in modo più coordinato e organico tutte le alternative possibili per ogni scenario e solo dopo, se proprio fosse necessario, lanciare i suoi twitter.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.