Usa. Guantanamo resta aperta

di C. Alessandro Mauceri

É da sempre uno dei punti più discussi e controversi della politica degli Stati Uniti d’America: come può un paese che da sempre si proclama paladino dei diritti civili e della pace nel mondo ammettere che alcuni detenuti vengano richiusi in carcere e torturati?
Il caso più famoso è il carcere di massima sicurezza sull’isola di Cuba: Guantanamo. Un posto inaccessibile e inavvicinabile dove i detenuti, rinchiusi senza alcun rispetto dei propri diritti, vengono sottoposti a trattamenti disumani, il più comune e tristemente rinomato è il cosiddetto water boarding.
Sostenitore dichiarato di questi siti il presidente americano Donald Trump, che già lo scorso anno aveva votato a favore di “reintrodurre il programma di interrogatori di terroristi di spicco fuori dal territorio degli Stati Uniti, anche se questo programma debba includere l’uso di centri di detenzione gestiti dalla CIA”. Nei giorni scorsi a confermare che gli USA, i “paladini dei diritti umani” in molti paesi del mondo, non hanno alcuna intenzione di smettere di usare questi metodi è stato l’ammiraglio John Ring, che in un’intervista ha dichiarato che “le strutture continueranno ad essere attive per 25 anni”. Il Pentagono “ci ha inviato un promemoria annunciando il piano per essere aperto”, ha detto Ring durante una visita organizzata per giornalisti con l’obiettivo di dimostrare che i prigionieri sono trattati in modo sufficientemente umano. Di diverso avviso Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, che a dicembre aveva riferito di fonti che affermavano che almeno un detenuto era ancora sottoposto a tortura a Guantanamo Bay. Forme di tortura come quelle basate sul rumore e sulle vibrazioni utilizzate contro Ammar al-Baluchi, uno dei sospettati complici dell’attentato dell’11 settembre.
Guantanamo non è il solo sito ad essere oggetto di discussione: di posti analoghi, controllati dalle forze statunitensi (non è chiaro se a gestirle sia il Pentagono o la CIA) ce ne sarebbero diversi. Tutti, per una forma di perbenismo estremo, posizionati fuori dei confini statunitensi ma sempre in zone sotto stretto controllo americano. La giustificazione della loro esistenza, spesso celata dietro alibi poco convincenti come “lo si fa per la sicurezza del Paese”, anno dopo anno è diventata sempre più blanda. Al punto che, anche a seguito di una fortissima pressione mediatica, nel 2009, l’ex presidente Barak Obama aveva promesso di chiudere questi centri di detenzione e tortura.
Dai presidenti Bush (padre e figlio) fino ad Obama sono stati centinaia i detenuti rinchiusi in queste prigioni. Dopo la decisione di chiuderla, a Guantanamo il loro numero è diminuito. Ma lo smantellamento completo non è mai avvenuto. Né si sa che fine abbiano fatto alcuni dei prigionieri un tempo rinchiusi a Guantanamo (alcuni non sono mai stati accusati ma sono considerati troppo pericolosi per essere rilasciati). Nessuno sa dove sono stati trasferiti o se sono mai stati sottoposti ad un vero processo, in un’aula di tribunale dove i “paladini dei diritti civili” potevano dimostrare di essere pronti a rispettare i diritti di tutti. Anche quelli dei sospettati di atti terroristici sanguinari. Proprio in questo dovrebbe stare la differenza tra un paese civile e un branco di terroristi: nel rispetto per tutti, sempre e comunque, di alcuni diritti fondamentali. Quei diritti che a Guantanamo non sono mai stati rispettati. E, forse, non lo saranno ancora per molti decenni.

Guantanamo è un’insenatura di 116 km² situata nell’omonima provincia, nella punta sud-est dell’isola di Cuba, a oltre 21 km a sud della città di Guantanamo, nota soprattutto per la presenza dell’omonima base navale statunitense e del relativo campo di prigionia.
Nel 1898, in occasione della guerra ispano-americana, vi arrivò la flotta Usa, che aiutò i cubani a rendersi indipendenti dalla Spagna: nel 1903 il presidente della neonata repubblica cubana, Tomás Estrada Palma, firmò il Cuban-American Treaty con il quale si stabiliva una concessione perpetua sulla baia, che sarebbe rimasta di demanio cubano, ma assegnata in gestione “uti dominus” (come fosse di loro proprietà), agli statunitensi.
Anche di recente i cubani ne hanno chiesto la restituzione.