Usa. Inflaction Reduction Act: come reagirà l’Europa?

Berlino e Parigi si muovono, mentre l’Italia rimane appesa al palo del debito pubblico.

di Dario Rivolta *

Tra circa un mese l’Inflaction Reduction Act proposto da Biden e approvato dal Congresso americano sarà operativo e prevede sovvenzioni per finanziare l’industria verde locale con ben 369 miliardi di dollari.
Non si tratta di una legge qualsiasi o di un qualunque “aiuto di stato” alle imprese d’oltre oceano, bensì di una decisione di grande importanza che potrebbe condizionare il futuro destino della ricerca e delle imprese di tutto l’occidente. L’economia d’oltre oceano riveste da tempo una forte attrattiva per i capitali esteri per molti motivi. Innanzitutto per il ruolo egemonico che gli USA esercitano a livello internazionale e la conseguente dominanza del dollaro negli scambi di tutto il mondo, poi perché i prezzi dell’energia sono oggi molto più bassi negli Usa che in Europa, infine anche per la presenza di veri e propri paradisi fiscali come, ad esempio il Delaware. La nuova, enorme, iniezione di denaro da parte del Governo invoglierà molte altre aziende, anche dal nostro continente, a dislocarsi negli Stati Uniti per poter approfittare di un’abbondanza di denaro a ottime condizioni e di un probabile protezionismo.
Il problema per l’Italia, e per tutta l’Europa, è che l’incentivo finanziario così importante unito a tutte le altre caratteristiche statunitensi tra cui la semplicità burocratica per l’apertura di nuove imprese, costituisca una particolare attrattiva per le imprese, i capitali e i ricercatori europei. Un esempio? Prima che il piano sia ancora operativo, la nostra Enel ha già annunciato che intenderà aprire negli Stati Uniti una nuova società per la produzione di innovativi pannelli fotovoltaici studiati dal proprio centro di ricerca a Catania. È pur vero che la stessa Enel ha aggiunto che la fabbrica di Catania continuerà a lavorare normalmente e che la nuova sede americana sarà funzionale soltanto per il mercato di quel continente ma, nel tempo, sarà davvero così? E come si comporteranno tante altre aziende europee desiderose di mettere le mani, almeno in parte, sulla cuccagna elargita da Washington?
Che la preoccupazione sia diffusa in tutte le capitali europee è un dato di fatto e lo si è visto già durante la visita di Macron a Washington. In questi giorni è in corso il seguito. Il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire e quello tedesco Robert Habeck sono negli Stati Uniti per incontrare il segretario al Tesoro Janet Yellen e gli altri membri del governo americano coinvolti negli affari economici e commerciali. L’oggetto della visita è il verificare se esiste una qualche soluzione concordata che riesca a non penalizzare le industrie europee, magari cercando una maniera che favorisca una collaborazione anziché una concorrenza all’ultimo sangue.
A questo punto vengono a galla due problemi. Il primo è che, poiché si tratta di una sfida a tutto il mondo industriale europeo, ci si potrebbe domandare come mai a toccare questo argomento comune a tutti i membri dell’Unione ci vadano solo i rappresentati di due dei ventisette Stati e nessun componente della Commissione. Ci sarebbe da chiedersi anche perché proprio solamente quei due. Se la delegazione doveva essere necessariamente ristretta perché non un ministro italiano visto che il nostro Paese è pur sempre la seconda economia manifatturiera del continente?
Purtroppo i motivi di questa esclusione vengono da lontano: Berlino e Parigi sono, di fatto e nonostante i loro altalenanti dissidi, i governi leader dell’Unione e il nostro Paese gode, da tempo, di un’immagine di scarsa affidabilità. Si deve aggiungere che Macron è stato il primo a reagire alla notizia dell’Inflaction Reduction Act e che per la Germania gli USA sono il primo mercato di esportazione (la Cina lo è per l’interscambio complessivo) arrivando a un valore di 156 miliardi di Euro di merci nel 2022.
Il secondo problema riguarda il fatto che, di là delle dichiarazioni ufficiali, l’Europa intesa come Unione, non ha ancora deciso se e come comportarsi. Proprio in questi giorni il nostro ministro Urso è a Stoccolma per iniziare a discutere quale politica industriale comune adottare. Per rispondere alla decisione americana si deve decidere se mettere da parte il Patto di Stabilità e allargare le maglie degli aiuti di Stato, oppure creare un fondo sovrano europeo con emissioni di debito comune.
Evidentemente la prima soluzione non può che favorire i Paesi che hanno un piccolo debito pubblico e lascia solo un piccolo spazio di manovra quelli, come l’Italia, già fortemente indebitati. Alla seconda soluzione si oppongono invece non solo i governi ma anche le opinioni pubbliche dei Paesi più “virtuosi”, che non vogliono trovarsi a dover pagare debiti per le “cicale” che hanno sempre vissuto al di sopra dei propri mezzi.
Come dare loro torto? Noi italiani siamo un Paese con menti geniali nel campo scientifico e nella ricerca in genere, ma troppo frequentemente penalizziamo le nostre menti più brillanti e le costringiamo ad andare a sviluppare le proprie ricerche all’estero. Abbiamo lavoratori capaci di grande produttività, ma soffochiamo le nostre industrie con una burocrazia asfissiante ed una fiscalità punitiva. Peggio ancora: nessun governo tra tutti quelli che si sono succeduti dall’entrata in vigore dell’euro ad oggi ha saputo approfittare dei bassi tassi di interesse per ridurre il debito pubblico e, al contrario, tutti hanno fatto a gara nelle scelte demagogiche distribuendo bonus a chicchessia e nutrendo parassitismi e incompetenze. Da noi anziché le capacità e la qualità si premiano ancora il nepotismo e la raccomandazione, con il risultato che le piccole e medie imprese riescono a sopravvivere virtuosamente tanto più quanto sono lontani dall’aver a che fare con lo Stato in tutte le sue forme evitabili. Guardiamo al PNNR: entro il 2022 dovevamo spendere 33,7 miliardi di euro e ne abbiamo spesi solo 20,5. Dovevamo realizzare 55 “obiettivi” e ne abbiamo raggiunti solo 25. Evidentemente c’è qualcosa che non va nelle nostre Amministrazioni Pubbliche!
Che l’Europa di oggi sia ancora soltanto una accozzaglia di Stati e che, anziché sentirci come unità con gli altri ci si percepisce quali concorrenti, è un malaugurato dato di fatto e chiunque abbia buon senso e cerchi di guardare più in là del proprio naso sa che solo un “approfondimento” dell’Unione può essere la risposta valida al mondo competitivo che abbiamo di fronte. Purtroppo, in barba a velleitari sovranismi e a rimostranze verso Bruxelles (per quanto a volte giustificate) noi italiani siamo gli ultimi ad avere il diritto di lamentarci o di pretendere diversi trattamenti. Innanzitutto i nostri governi (e ogni volta si spera nel corrente, rimanendone sempre delusi) dovrebbero avere il coraggio con onestà, e correttezza di dire agli italiani che è indispensabile un periodo di forti sacrifici. È necessario agire, anche andando contro gli interessi delle numerose corporazioni. È imprescindibile tagliare tutti i numerosi sprechi. È indispensabile tornare a premiare la qualità e non il familismo. È inderogabile mettere da parte la demagogia e assumersi le impopolari responsabilità.
Quando sapremo intraprendere questa strada dimostrandolo concretamente anche in Europa, solo allora la nostra voce e le nostre esigenze saranno ascoltate almeno con rispetto. Non farlo e affidarsi ai ricatti o al piagnisteo farà sì che, ogni volta che si dovrà discutere di cose serie o sarà necessario far fronte ad ostacoli causati da terzi, l’Italia non siederà a quei tavoli o non sarà presa in dovuta considerazione.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.