Venezuela. Guaidò e Maduro si sfidano con le manifestazioni. Ma si guarda a cosa farà l’esercito

di Nunzio Messere –

Le grandi manifestazioni di ieri in Venezuela hanno consegnato l’immagine del paese spaccato in due, qual è dopo che una decina di giorni fa il leader dell’esautorata (nel 2015) Assemblea nazionale, Juan Guaidò, si è autoproclamato presidente del paese raccogliendo dietro a sé il malcontento diffuso di una popolazione ridotta alla fame, ma anche l’appoggio di diversi paesi, soprattutto degli Usa, della Gran Bretagna e dell’America Latina.
L’altro presidente, il chavista Nicolas Maduro, ha detto ai suoi di essere disposto ad indire nuove elezioni parlamentari ma non presidenziali, ha dichiarato il “golpe” fallito ed ha assicurato di continuare a godere dell’appoggio delle forze armate. A sostenerlo anche in sede di Consiglio di sicurezza Onu la Russia e la Cina, che già si sono messe di traverso alla mozione Usa di riconoscere Guaidò presidente.
Se appaiono poco fondate le accuse di esponenti della politica Usa, tra cui il senatore Rubio, secondo cui Maduro avrebbe fatto arrivare 850 milioni di dollari in oro negli Emirati Arabi Uniti in vista di una sua possibile fuga, è certo invece che il paese latinoamericano oggi è alla catastrofe economica, con l’inflazione al milione per cento, ma per la fine dell’anno è data dal Fmi al 10milioni per cento; la corrente elettrica c’è e non c’è, i camion con i generi alimentari sono assaltati, gli ospedali non hanno medicinali, gli uffici pubblici e le scuole aprono solo poche ore alla settimana, il 10 per cento della popolazione è già fuggita all’estero. Un’escalation incontrollabile, avviatasi con la nazionalizzazione delle aziende straniere del petrolio voluta da Maduro, che ha comportato la fuga degli investitori esteri. Maduro, che si è riferito a Guaidò come al “presidente muchacho”, ha risposto alla minaccia di nuove sanzioni Usa esclamando “Il mondo fermi la pazzia di Donald Trump, non vogliamo un nuovo Vietnam”.
Ha poi ringraziato i paesi che lo stanno sostenendo tra cui l’Italia, che si è opposta al consiglio Esteri di due giorni fa a Bucarest obbligando l’intera Ue a non riconoscere Guaidò. Su questo tema l’Ue sta lavorando ad un ultimatum di 90 giorni per le presidenziali, ma tutto è ancora in divenire.
Se Maduro controlla i media statali e quindi l’informazione, Guaidò ha dalla sua la moltitudine, la gente che non ce la fa ad arrivare alla fine del mese e che oggi non ne può più della dittatura chavista, anche se di Chavez ha ormai ben poco. Lui ha parlato a Las Mercedes davanti a centinaia di migliaia di persone giunte con cinque cortei, ma era seguito anche nelle manifestazioni delle altre città.
Alla folla Guaidò ha detto che “i prossimi giorni saranno decisivi”, che è necessario ricostruire il paese e la sua Costituzione come giungere a nuove elezioni. Ha detto di non volere la guerra civile e di non credere che vi sia al momento tale rischio, che il 90 per cento della popolazione vuole che Maduro se ne vada. Ha poi chiesto ai militari di lasciar passare gli aiuti umanitari, vista la situazione grave in cui riversa il paese.
L’esercito è l’incognita su cui si gioca tutto. Ufficialmente i vertici stanno con Maduro, il ministro della Difesa Vladimir Padrino Lopez ha confermato che “non accettiamo un presidente imposto da oscuri interessi o che si è autoproclamato a margine della legge”. Tuttavia tra la truppa e gli ufficiali vi sono continue defezioni, anche perché i soldati vengono dal popolo e non dalla nomenklatura di partito. Ieri è passato con Guaidò il generale dell’aviazione Francisco Yánez, il più alto in grado ad averlo finora fatto, il quale ha diffuso un messaggio video in cui ha parlato di “imminente transizione alla democrazia”. Probabilmente è già fuggito all’estero, ma gli Usa hanno diffuso un appello rivolto a tutti i militari di schierarsi con il “legittimo presidente”.
Il mondo sembra muoversi solo oggi grazie al coraggio di Guaidò, personaggio fino ad oggi poco conosciuto persino in patria, ma le proteste in Venezuela si protraggono da anni e sono soffocate nel sangue, con i paramilitari dei “Collectivos” che ammazzano i giovani sparando loro alla testa. Una quarantina i morti degli ultimi giorni.