Brexit. Al Consiglio Ue May tenta di sciogliere i tre noti che bloccano i negoziati

di Guido Keller –

Sono tre i freni che stanno rallentando il processo per arrivare alla Brexit, l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea entro il marzo 2018 come stabilito con il referendum del 23 giungo 2016. Tre ostacoli che al momento si presentano come insormontabili per la differenza di vedute tra Bruxelles e Londra, con il capo negoziatore Ue Michel Barnier che ha denunciato nei giorni scorsi che “Non ci sono ancora sufficienti progressi sulle questioni create dall’uscita della Gran Bretagna dall’Unione” e che ben 5 sedute sono andate a vuoto.
Dichiarazioni, proposte e proclami non hanno infatti smontato i tre nodi principali per lo svolgimento delle trattative, ovvero lo status dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna, il denaro che Londra deve dare all’Ue per i progetti firmati fino al 2020 (70 miliardi per Bruxelles, molti meno per Londra), e la questione dell’Irlanda del Nord, il cui conflitto con i nazionalisti irlandesi è venuto meno proprio perché entrambe le parti erano nell’Unione Europea.
Sul primo punto, quello dello status dei cittadini europei residenti in Gran Bretagna, la premier Theresa May è intervenuta oggi con una una lettera pubblica sul suo profilo Facebook. May ha voluto garantire che i cittadini Ue che operano e vivono in Gran Bretagna potranno continuare a godere dei loro diritti,“potranno rimanere”, “hanno dato un grande contributo al nostro Paese e noi vogliamo che loro e le loro famiglie restino”. Annunciando che “Siamo vicini ad un accordo”, la premier ha fatto sapere che proporrà che non venga richiesto ai cittadini Ue di dimostrare di avere un’assicurazione sulla malattie (Comprehensive Sickness Insurance), di tenere “il più basso possibile” i costi del procedimento di permanenza nel paese e di semplificare il processo per ottenere un nuovo status per coloro che già godono di un permesso di soggiorno permanente.
Quello dell’accesso dei cittadini Ue al Welfare è stato uno degli argomenti portanti del “leave” al Referendum, per cui May continua a trovare opposizione nella sua sgangherata maggioranza (si è dovuta alleare con gli Unionisti nordirlandesi), nella quale i sostenitori della Brexit più intransigenti continuano a fare pressioni perché gli stranieri non godano gratuitamente di sanità, scuole ed edilizia popolare.
Per quanto riguarda il denaro che Londra deve all’Ue per i progetti messi in piedi fino al 2020 è invece ancora braccio di ferro. Già nell’aprile 2016, quindi ben prima del referendum sulla Brexit, uno studio dell’ex cancelliere dello Scacchiere George Osborne indicava che un’eventuale “hard Brexit” (cioè quella che May vuole) sarebbe potuta costare alle casse del Tesoro britannico qualcosa come 66 miliardi di sterline, pari a circa 73 miliardi di euro. Denaro che il capo della Commissione ha già fatto sapere di volere fino all’ultimo centesimo, mentre Downing Street un giorno parla di una disponibilità a versare 20 miliardi ed un altro 50 miliardi.
Per il capitolo nordirlandese in agosto un documento del governo britannico parlava di un confine “senza infrastrutture di frontiera fisiche né posti di frontiera”. Di fatto si tratta di lasciare le cose come stanno, ma da più parti si è fatto notare che la cosa rappresenterebbe una valvola attraverso la quale passerebbero comune persone (già oggi 30mila al giorno) e merci senza controlli: che senso avrebbe la Brexit nel momento in cui agli esportatori diretti da e all’Ue basterebbe recarsi in Irlanda per portare le merci in e dalla Gran Bretagna?
Quello della Brexit è uno dei temi centrali in discussione al Consiglio europeo di oggi a cui è presente insieme agli altri Ventisette Theresa May: compito della premier è quello di dare nuovo impulso ai negoziati sulla Brexit e di portare la riflessione sul futuro accordo.