‘Io con i ribelli’. E le armi? ‘Da Francia e Qatar’. Intervista al colonnello libico Osam Zentani

di Enrico Oliari, con la collaborazione di Saber Yakoubi –

Vista da fuori, la rivoluzione libica appare come la sollevazione di una parte del popolo, quello malcontento, verso il governo del Raìs ed i suoi sostenitori. I buoni da una parte ed i cattivi dall’altra, verrebbe da dire, anche se fino ad oggi non è stato del tutto chiari chi siano stati realmente i buoni e chi i cattivi in una terra, la Libia, ricchissima di oro nero e quindi al centro di contese e di interessi internazionali.
Il tessuto sociale libico è ben diverso da come l’occhio dell’occidentale lo vede, fatto com’è di tribù e di zone di influenza, cioè di nazioni nella nazione, non necessariamente in buoni rapporti fra loro.
Anche per questo non è sufficiente avere un approccio superficiale per capire la complessità della crisi libica che, partita nel marzo 2011, è terminata con la caduta e la morte di Gheddafi; piuttosto è fondamentale la conoscenza e la testimonianza diretta di chi, libico, ha vissuto in pieno quei tragici momenti.
NotizieGeopolitiche ne parla con il colonnello Osam Zentani, impiegato presso il valico di Ras Ajdir al confine con la Tunisia. L’incontro avviene un albergo della cittadina di Ben Guardane, dove il colonnello è solito dormire. “Io ho impugnato le armi durante questa rivoluzione, ho combattuto con gli insorti, dalla parte del Comitato nazionale di transizione”, racconta mentre, pacato, fuma un profumato narghilè. “Io sono di Zentan, tutti della mia città eravamo con le truppe ribelli. Questo non esclude che io non abbia apprezzato alcune caratteristiche della politica del vecchio regime”.

La rivoluzione libica è venuta sull’onda della Primavera araba o covava da tempo?

Entrambe le cose. Tutti siamo convinti che vi sia stata una mano capace di accendere il sentimento di una parte consistente della popolazione. Quel che è certo è che noi ribelli abbiamo avuto armi dalla Francia e dal Qatar: la Francia voleva scippare all’Italia la tradizionale zona di influenza, il Qatar operava per conto degli Stati Uniti”.

La società libica, a differenza di quella di altri paesi interessati dalla Primavera araba, è divisa longitudinalmente in tribù: pensa che tali spaccature abbiano avuto un ruolo chiave nella rivoluzione e soprattutto che, nonostante tutto, sia possibile riconciliare il paese?

Il fattore tribale e la divisione che lo caratterizza sono stati gli elementi che hanno permesso a Muammar Gheddafi di rimanere al governo per 42 anni. Il Raìs aveva infatti stretto alleanza con le tribù principali, potenti numericamente e sotto il profilo economico. Va considerato che una sola tribù può arrivare anche ad un milione di persone: lui si era assicurato l’appoggio delle tre tribù principali, nominando ministri, ambasciatori e incaricati di rilievo fra gli esponenti delle stesse. Il tutto a discapito delle tribù minori, dove, ovviamente, covava il malcontento. Il peso del Comitato nazionale di transizione è poca cosa rispetto all’istituzione-tribù. In Libia non si muove nulla senza l’interessamento diretto delle tribù, tanto che in occasione della rivoluzione hanno interagito esponenti di diversi gruppi”.

E per la riconciliazione nazionale?

Quando c’è stato bisogno di me, io ho impugnato l’arma, non mi sono tirato indietro. Quando Gheddafi è stato cacciato, io sono tornato al mio lavoro, alla dogana. Conciliazione… metà delle Forze di sicurezza libiche sono morte, anche per via dei bombardamenti. Noi ci siamo accorti solo dopo del livello di preparazione e di equipaggiamento delle Forze di sicurezza di Gheddafi e quindi si è resa necessaria un’azione molto forte, per cui non è semplice parlare di riconciliazione”.

Il comportamento dell’Italia con la Libia di Gheddafi è stato quanto meno inedito: si è passati nel volgere di poco dal celebre baciamano ai missili sparati dagli aerei. Che ne pensano i libici?

L’amicizia vera fra due popoli non esiste, vi possono essere solo interessi comuni. Quando Berlusconi è venuto in Libia a trovare il suo ‘amico’ Gheddafi, se ne è ripartito di una marea di petrolio e di gas per l’Italia. Poi, però, si è reso conto che il suo sostegno al Raìs gli faceva perdere non pochi interessi da altre parti e quindi ci ha messo poco per cambiare strategia. Nonostante questo posso dire che noi libici preferiamo di gran lunga avere relazioni commerciali con l’Italia, piuttosto che con la Francia, poiché l’Italia sa prendere ed anche dare, mentre la Francia sa solo sfruttare”.

Qualcuno ha accennato all’uso di bombe all’uranio impoverito da parte della Nato…

Se ne è parlato molto ed ora nella zona colpita c’è una situazione di allarme. Si tratta del luogo ove sorgeva la roccaforte di Gheddafi, a Bad Laziziya, presso Tripoli, dove vi erano concentrate le migliori truppe del Raìs”.

Quanti morti ha comportato questa guerra?

Siamo arrivati a quota 80.000, 10.000 i feriti”.

Perché i feriti meno dei morti?

E’ la brutalità di questa guerra: si trattava spesso di scontri individuali, o ti uccido io, o mi uccidi tu”.

Giungono continuamente notizie di sparatorie: sono atti di criminalità o la coda degli scontri?

Spesso si tratta di liti banali o di regolamenti di conti… manca la Polizia, che è da ricostruire. A tal proposito è stato chiesto agli ex combattenti di arruolarsi, ma le cose sono ancora in alto mare”.

Come si faceva ad entrare nel CNT e come faceva la gente comune a prendere un’arma?

Gheddafi ha da sempre comprato armi ed armamenti, ne riempiva i depositi delle città: allo scoppio della rivoluzione è bastato aprire le porte per armarsi fino ai denti. Ma, come ho detto, vi sono state forniture provenienti anche dall’estero”.

La guerra civile è stato un altalenarsi continuo di battaglie vite dall’una o dall’altra parte: lei ed il suo gruppo siete stati sempre sicuri della vittoria finale?

Eravamo convinti che se la vittoria fosse arrivata, sarebbe arrivata da Allah, ma non neghiamo il ruolo fondamentale della Nato: se Gheddafi avesse voluto e se non vi fossero stati interventi esterni, avrebbe potuto spianare in poco intere città, mentre noi avevamo solo mitragliette”.

Gheddafi sognava una Libia leader dell’Africa e l’economia del paese era comunque forte nel contesto del continente. Potrà tornare ad avere un ruolo primario?

Da quelle relazioni la Libia non ricavava nulla, servivano solo a Gheddafi per sentirsi importante, ‘il re dei re’. Comunque, per essere onesti, in Libia si stava meglio che da altre parti, tant’è che non vi è stata un’emigrazione di libici verso l’Europa”.

Lei lavora alla dogana: cosa passa per la frontiera libico-tunisina?

Di tutto. C’è un grande movimento, un continuo viavai di merci e di persone. Noi non blocchiamo i contrabbandieri, ormai sono una realtà consolidata ed il Libia c’è bisogno di tutto. La gente del posto vive solo di quello, siamo in mezzo al deserto. L’unica cosa che blocchiamo sono le armi, quelle non devono passare”.

Lei è di Zentan, della tribù che ha prigioniero Seif al-Islam, il figlio di Gheddafi…

Sì, è prigioniero, ma in un regime molto morbido: sì è convertito, è diventato un musulmano praticante. Viene accompagnato in giro, gioca a calcio con chi lo ha in custodia. Al momento della cattura da parte della brigata dei ribelli di Zentan ha proposto un patto: ‘o io vi combatto fino alla morte, oppure voi mi prendete e mi tenete con voi’. Ha messo a disposizione del denaro per la ricostruzione della città e voleva garanzie di non essere consegnato nelle mani dei ribelli di Tripoli, il quali gli avrebbero fatto fare la fine di suo padre e di suo fratello”.

E della morte del Raìs che mi dice?

Ha fatto una fine che noi di Zentan non abbiamo condiviso, ma di mezzo c’erano i servizi segreti occidentali: era una condanna già scritta, per chiudergli la bocca”.