A Roma si parla del “massacro” di Khojaly

di Giuliano Bifolchi –

KhojalySi è svolta mercoledì 12 febbraio 2014 a Roma la conferenza internazionale “La protezione della popolazione civile nei conflitti armati: il caso di Khojaly” organizzata dal Comitato Italiano Helsinki per i diritti umani e dalla Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo (LIDU) con l’obiettivo di introdurre il pubblico italiano ed analizzare l’uccisione di civili azeri da parte delle truppe armene nella città azerbaigiana di Khojaly nel Nagorno-Karabakh tra il 25 ed il 26 febbraio del 1992 dal punto di vista del diritto internazionale.
La conferenza, moderata da Antonio Stango, segretario generale del Comitato di Helsinki, è stata introdotta da Alfredo Arpaia, presidente di LIDU, Vitaliano Esposito, membro della Commissione Europea contro il Razzismo e l’Intolleranza, Antonio Marini avvocato generale presso la Corte d’Appello di Roma, Roberto Mura, rappresentante dell’Associazione di Amicizia Interparlamentare Italia-Azerbaijan, Paola Casagrande, Presidente Associazione Italia-Azerbaigian; i lavori hanno visto invece i contributi di Fiammetta Borgia, docente di Diritto Internazionale presso l’Università di Roma “Tor Vergata”, Fulvio Salimbeni, professore di Storia Contemporanea dell’Università di Udine, Roberto Bongiorni, inviato de Il Sole 24 Ore, Marco Perduca, Senatore della Repubblica e Johannes Rau, ricercatore del Forum Scientifico sulla Sicurezza Internazionale presso l’Accademia dei quadri dirigenti della Bundeswehr (Amburgo) e presso l’Accademia Nazionale della Difesa (Vienna) ed autore del libro .
Tra il 25 ed il 26 febbraio del 1992 le forze armate armene con il supporto del 366° Reggimento Motorizzato fucilieri russo attaccarono la città di Khojaly, situata nel Nagorno-Karabakh lungo la strada che da Agdam porta a Stepanakert, con l’obiettivo di distruggere le batterie di lancia razzi operative fin dall’inizio della guerra tra Armenia ed Azerbaigian in grado di infliggere notevoli danni alle forze nemiche disposte nell’area circostante. Al termine dell’attacco, secondo quanto riportato dalle autorità azerbaigiane, persero la vita 613 civili tra cui 106 donne e 83 bambini, dati aggravati dal fatto che 8 famiglie furono completamente distrutte, 25 bambini persero entrambi i genitori ed altri 130 rimasero orfani di almeno un genitore.
Quanto accaduto ebbe un riscontro mediatico a livello internazionale e contrappone tuttora la Repubblica di Azerbaigian a quella dell’Armenia: secondo le autorità azerbaigiane un simile evento può essere qualificato come “genocidio” perché le forze armate armene decisero deliberatamente di massacrare parte della popolazione civile di Khojaly con l’intento di “vendicare” il pogrom di Sumgait avvenuto il 27 febbraio 1988. A supporto di questa tesi viene ribadito quanto espresso dall’attuale presidente armeno Serzh Sargsyan, Ministro della Difesa dell’Armenia durante il periodo del conflitto armeno-azero, nell’intervista condotta nel 2000 dal giornalista britannico Thomas De Waal e riportata successivamente nel libro Black Garden: Armenia and Azerbaijan through Peace and War nel quale il leader armeno sostenne che “before Khojaly, the Azerbaijanis thought that they were joking with us, they thought that the Armenians were people who could not raise their hand against the civilian population. And we should also take into account that amongst those boys were people who had fled from Baku and Sumgait (the anti-Armenian pogroms)”.
Gli armeni invece contrastano tale versione rigettando ogni accusa e sostenendo la posizione dell’operazione militare preannunciata dalle proprie truppe le quali avevano invitato la popolazione di Khojaly a lasciare la città attraverso un corridoio umanitario sfruttato invece dai disertori azeri in fuga e causa della morte dei civili caduti sotto il fuoco amico. Ulteriore versione supportata dagli armeni è quella della scelta operata allora da parte del Governo di Baku di far perire i civili sotto il fuoco nemico con l’intento di catturare l’attenzione internazionale e ottenere consensi e supporto per la propria causa.
Il conflitto del Nagorno-Karabakh è iniziato nel 1988 quando gli armeni rivendicarono tale regione adducendo motivazioni di natura storica, etnica e religiosa; con la nascita della Repubblica del Nagorno-Karabakh e la sua proclamazione ufficiale nel gennaio del 1992 scoppiò il conflitto tra Armenia ed Azerbaigian che durò fino al 17 maggio del 1994 quando le due parti firmarono un accordo di cessate il fuoco (Accordo di Bishkek). La firma di tale accordo non ha placato però le ostilità tra le due parti le quali sono venute a contatto negli ultimi venti anni tramite le truppe presenti lungo la linea di frontiera; con l’obiettivo di favorire il processo di pace l’OSCE creò il Gruppo di Minsk, presieduto da Francia, Russia e Stati Uniti, il quale ha registrato una serie di insuccessi ed una situazione di immobilità. Alle motivazioni addotte dall’Armenia di natura storica, etnica e religiosa l’Azerbaigian risponde considerando l’operato di Erevan una semplice aggressione e volontà di annessione di un territorio per ragioni di natura economica; per il governo di Baku il processo di pace sarà possibile soltanto dopo il ritiro delle truppe armene dai territori occupati ed il ritorno dei rifugiati azeri nella propria terra di origine.