Arresti in Russia: il terrorismo salafita si espande a macchia d’olio

di Giuliano Bifolchi * –

Il giorno 7 dicembre 2016 il ministero degli Affari interni russo ha riportato la notizie dell’arresto nella zona di Mosca di persone collegate ad organizzazioni terroristiche impegnate nelle attività di propaganda e reclutamento. Tale notizia evidenzia da una parte il lavoro del MVD e dell’agenzia FSB nella lotta di contrasto al terrorismo, ma anche l’impossibilità di evitare la presenza della propaganda terroristica e di gruppi terroristici all’interno del territorio russo.
Secondo le prime informazioni un’operazione congiunta di MVD e FSB, avvenuta nella capitale in ben dieci differenti luoghi, ha portato all’arresto di circa 25 persone considerate membri o leader di un’organizzazione terroristica e conseguentemente sarebbe stato aperto un caso secondo l’articolo 205 del Codice Criminale Russo in merito alla creazione di una organizzazione terroristica.
Commentando l’accaduto Evgeny Nikitenko, professore dell’Accademia nazionale russa di Economia e Pubblica amministrazione sotto la presidenza della Federazione Russa, ha evidenziato come il terrorismo sia entrato in Russia e presente sul suolo nazionale sotto diverse forme che vanno dall’estremismo religioso di stampo wahhabita (termine spesso utilizzato impropriamente nel mondo della sicurezza russo per indicare invece i musulmani salafati) fino ad arrivare ai simpatizzanti o membri di Daesh, conosciuto in occidente come Stato Islamico o ISIS.
Una delle minacce principali alla sicurezza russa è data dagli attentati suicidi o esplosivi sperimentati già in passato ed organizzati da Imarat Kavkaz (Emirato del Caucaso), organizzazione terroristica formata da Doku Umarov nel 2007 con l’obiettivo di creare un emirato nella regione nord caucasica dove far vigere la Sharia, legge religiosa islamica, e formare una entità statale indipendente dal governo centrale di Mosca. Tra gli attacchi è possibile citare, infatti, l’esplosione avvenuta nel 2009 sul treno Nevsky Express, l’attentato alla metro di Mosca del 2010 dove persero la vita 40 persone, le esplosioni all’aeroporto Domodedovo di Mosca nel 2011 che uccisero 36 persone e l’attacco esplosivo alla stazione degli autobus di Volgograd a fine 2013, poco prima dell’organizzazione dei Giochi olimpici invernali di Sochi 2014.
Problema ulteriore è quello dei finanziamenti a tali organizzazioni i quali, sempre secondo le parole di Nikitenko, proverrebbero dall’estero direttamente o indirettamente ed interesserebbero non solo le stesse organizzazioni terroristiche ma anche associazioni e movimenti a queste legati come NGO e agenzie di informazione non statali. L’organizzazione di manifestazioni apparentemente non estremiste, come ad esempio flash mob, dimostrazioni di piazza, raccolta fondi, sottolinea Nikitenko, possono rappresentare una forma di terrorismo il quale, a partire dall’11 settembre 2001, si è rivelato una minaccia per l’Europa ed il mondo intero la cui sconfitta non è data solo dalla lotta diretta ai terroristi, ma principalmente dalla risoluzione dei problemi politico-sociali ed economici di aree critiche in Caucaso, Asia Centrale, Medio Oriente e Nord Africa.
Vladimir Lutsenko, colonnello in pensione di FSB, ha commentato l’accaduto dichiarando che il numero delle persone legate a questa organizzazione terroristica, di cui ancora non è stato comunicato il nome, potrebbe essere maggiore e che gli arresti effettuati a Mosca potrebbero essere soltanto l’inizio. Secondo l’ex dipendente dei Servizi di Sicurezza russi, nel mondo c’è una lotta contro la minaccia terroristica internazionale che oggigiorno assume il nome di Daesh ma fonda le sue radici in paesi come Arabia Saudita e Qatar i quali possono essere considerati “amici” degli Stati Uniti.
Parlando in generale di sicurezza nella Federazione Russa, questi arresti seguono quelli di San Pietroburgo e Ekaterinburg e l’eliminazione di uno dei leader della militanza armata del Caucaso del Nord a seguito di una operazione delle forze speciali nella regione. Lutsenko, a tal proposito, ha puntato il dito contro una tendenza reazionaria definita da lui stesso “pseudo-Wahhabismo” le cui origini sono riconducibili ai gruppi armati guidati da Shamil Basayev (morto nel 2006) e l’emiro Ibn al-Khattab (morto nel 2002), protagonisti della lotta contro il Cremlino prima in Cecenia e poi nel Caucaso del Nord.
Proprio il Caucaso del Nord può essere visto come una “spina nel fianco” della Russia perché tale regione, importante dal punto di vista strategico per il Cremlino e considerata come una buffer zone meridionale che separa lo Stato russo da due attori regionali principali come la Turchia e l’Iran, ha da sempre rappresentato nella storia russa un problema per la sua conquista durante l’epoca zarista (basti pensare alla Guerra Caucasica 1817-1864), e poi gestione sia durante l’epoca sovietica che dal 1991 quando, a seguito della caduta dell’URSS, si venne a creare la Federazione Russa.
La politica del Cremlino nel Distretto federale russo del Caucaso del Nord (DFCN) è rappresentata dal contrasto netto e duro alla compagine terroristica locale attraverso l’imposizione di regimi anti terrorismo (KTO), operazioni delle forze speciali ed una netta militarizzazione dell’area a cui si è aggiunto un programma di sviluppo socio-economico basato sul settore del turismo (Northern Caucasus Resorts Project ne è l’esempio maggiore) il quale dovrebbe contrastare i problemi sociali locali, in primis la disoccupazione, e diminuire l’influenza dei gruppi militanti nord caucasici sulla popolazione. Se a questa politica uniamo la strategia utilizzata prima di Sochi 2014 che ha favorito l’emigrazione degli estremisti religiosi e potenziali militanti jihadisti dal Caucaso verso la Siria e l’Iraq, ed analizzando i dati circa la diminuzione degli attacchi terroristici e delle vittime di terrorismo nel periodo 2014-2016, è possibile affermare che la Russia ha ottenuta una “vittoria” a livello regionale riuscendo a infliggere duri colpi all’Emirato del Caucaso il quale, dopo la morte di Doku Umarov confermata nel 2014 e dei due successivi leader Aliaskhab Kebekov e Magomed Suleimanov nel 2015, sembra attualmente aver perso una guida ed il ruolo di minaccia principale per Mosca.
Se l’Emirato potrebbe sembrare indirizzato verso la via del tramonto (possibilità spesso messa in discussione dagli esperti), Daesh, con la sua capacità di fare breccia nel cuore e nelle menti della comunità musulmana russa grazie alla sua campagna mediatica e comunicazione, ha preso il ruolo della principale minaccia alla sicurezza della Federazione, affermazione supportata anche dalle recenti rivendicazioni degli attacchi in Dagestan.
Secondo quanto dichiarato dalla FSB, il numero di cittadini russi e cittadini delle repubbliche dell’ex Unione Sovietica che stanno combattendo in Medio Oriente tra le file di Daesh oscillerebbe tra le 5-7 mila unità; con il supporto alla Siria di Bashar al-Assad da parte della Russia di Putin che ha inequivocabilmente sovvertito le sorti del conflitto siriano, ed a seguito delle operazioni militari guidate dalla coalizione internazionale insieme alle forze irachene e curde in Iraq, Daesh sembra indirizzato verso la sconfitta, fattore che potrebbe comportare il rientro dei combattenti russi in patria i quali potrebbero alimentare il network terroristico nel Caucaso, creare nuovi gruppi nelle aree a maggioranza musulmana ed organizzare attentati su tutto il territorio nazionale.
La Federazione Russa si trova quindi di fronte ad una grande sfida che l’accomuna a tutte le potenze europee ed occidentali, ossia la lotta e contrasto al terrorismo locale ed internazionale che potrà avvenire soltanto attraverso un lavoro congiunto delle agenzie di Intelligence mirato ad arrestare i combattenti di ritorno dal Medio Oriente e congelare i fondi monetari erogati come forma di supporto economico alle organizzazioni terroristiche. La tattica del “pugno di ferro”, anche se ha portato risultati significativi, potrebbe avere effetti soltanto momentanei se la Russia, rispettando quanto detto da Nikitenko, non affrontasse il problema alla base, ossia la risoluzione dei contrasti sociali ed etnici all’interno del suo territorio nazionale.

* Giuliano Bifolchi. Analista geopolitico specializzato nel settore Sicurezza, Conflitti e Relazioni Internazionali. Laureato in Scienze Storiche presso l’Università Tor Vergata di Roma, ha conseguito un Master in Peace Building Management presso l’Università Pontificia San Bonaventura specializzandosi in Open Source Intelligence (OSINT) applicata al fenomeno terroristico della regione mediorientale e caucasica. Ha collaborato e continua a collaborare periodicamente con diverse testate giornalistiche e centri studi.