Clash of systems: i rischi degli scenari di uno scontro tra sistemi. I simboli di una vignetta geopolitica

Secondo gli analisti di Foreign Affairs non è affatto certo che fomentare una competizione globale tra USA e Cina, tra sistemi democratici e autocratici, possa determinare benefici. Sarebbe meglio che l’America prenda le mosse da un’analisi più approfondita e realistica della “supposta” egemonia cinese. La vignetta geopolitica di Global Time e il commento degli analisti: una nuova sfida tra Atene e Sparta non intriga l’Europa.

di Maurizio Delli Santi *

Notizie Geopolitiche del 14 giugno (Il G7 di Carbis Bay: dagli Usa la nuova strategia del containment) ha già anticipato come, di fronte all’annuncio del presidente statunitense Biden di una nuova strategia del conteinment contro l’espansionismo cinese, Foreign Affairs aveva sollevato l’allarme sul rischio di scatenare un nuovo Clash of Systems. È quindi opportuno un approfondimento sui termini di questa analisi che i due accademici della Cornell University, Thomas Pepinsky e Jessica Chen Weiss, hanno presentato, invero sotto forma di interrogativo, Clash of Systems?, l’ 11 giugno scorso sulle pagine dell’autorevole rivista statunitense dedicata alle relazioni internazionali. È la stessa rivista da cui ormai trenta anni fa Huntigton lanciò un altro allarme, quello della Clash of Civilizations, che secondo molti osservatori ha anticipato le narrazioni dello scontro “culturale” tra occidente e oriente, culminate nell’attacco simbolico all’occidente dell’11 settembre e nelle ulteriori tragedie del terrorismo islamico portate nel cuore dell’Europa.
L’analisi parte dall’assunto che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden abbia ormai definito nettamente che nell’attuale fase della politica mondiale sia fondamentale “compiere la scelta tra democrazie e autocrazie”, una decisione che, come aveva già indicato in un discorso a Pittsburgh il 31 marzo, deve essere alla base della “competizione tra America e Cina, e anche il resto del mondo”. Il successo economico e il consolidamento politico della Cina hanno effettivamente dimostrato che lo sviluppo non richiede necessariamente un processo di democratizzazione, e man mano che la Cina diventa più influente potrebbe “divenire alla fine una minaccia ideologica più forte di quella dell’Unione Sovietica”.

La posizione di Pepinsky e Weiss è altrettanto chiara: nel propagandare uno scontro politico-economico con la Cina bisogna fare attenzione, anche perché non è affatto certo che fomentare una competizione globale tra USA e Cina, o tra sistemi democratici e autocratici, possa determinare benefici, piuttosto che conseguenze negative. E ciò anche se, a prima vista, potrebbe esserci un qualche riscontro positivo sul piano economico interno, perché contrastare la Cina e la sua One Belt One Road potrebbe attrarre gli investimenti in territorio americano con l’alternativa della Build Back Better World (B3W). Questo risultato infatti potrebbe anche rilevarsi effimero, destinato presto ad esaurirsi. Di contro, sul piatto della bilancia vanno messi una serie di rischi, molto più seri.

Un primo rischio è proprio quello di alimentare una “retorica del bene contro il male” che può favorire la xenofobia, il razzismo anti-asiatico e la violenza contro chiunque sia percepito come straniero. E si tratta di un pericolo che Biden ben conosce, se si considera quanto egli stesso abbia condannato il “razzismo sistemico”, indicandolo tra le cause fondamentali della conflittualità sociale americana, come è dimostrato dalle reazioni popolari sorte con l’uccisione di Georg Floyd e le altre gravi aggressioni alla comunità afroamericana o alle altre componenti etniche diffusamente presenti nella società americana.

Sarebbe quindi meglio che l’America prenda le mosse da un’analisi più approfondita e realistica della “supposta” egemonia cinese, perché proprio nel lanciare questa “sfida tra sistemi” paradossalmente è l’Ameria stessa a promuovere il riconoscimento di una influenza ideologica del Partito Comunista Cinese, che nei fatti non c’è.
Dietro la propaganda cinese si celano l’insicurezza politica e i timori del fallimento ideologico, perché è evidente che il modello del neocapitalismo di stato cinese è causa di disuguaglianze crescenti ed ha determinato una contraddizione esiziale tra gli ideali fondativi e le sue tristi pratiche di estrema coercizione nel lavoro e di sorveglianza sulla libertà di espressione. Anche le repressioni contro gli Uiguri, i dissidenti del Tibet e di Hong Kong, le stesse limitazioni alla libertà di stampa e di espressione, l’esasperazione dei sistemi di controllo anche attraverso l’IA, alla fine, non sono altro che segnali di debolezza, che denunciano una profonda mancanza di consenso verso il regime. Nonostante l’affermazione economica di questa fase storica, la leadership interna al Paese stenta a consolidarsi realmente.

La sopravvalutazione che compiono gli americani sull’influenza ideologica ed anche economica della Cina, inoltre, non è riscontrabile nella stessa regione indio-asiatica, dove non vi è affatto quel credito che si dà per scontato.
Sotto il profilo della ipotizzata influenza “ideologica”, anche il Vietnam è governato da un regime guidato da un solo partito, ufficialmente di orientamento comunista, ma che ha intrapreso anch’esso un significativo processo di riforma economica a partire dagli anni ’80. Eppure il Vietnam si è sempre opposto alle attività cinesi nel Mar Cinese Meridionale, ha sviluppato autonomamente il proprio percorso interno di riforma, ed ha costruito un propria rete 5G, evitando di collaborare con il gigante cinese della tecnologia Huawei.
La Cina si è quindi più facilmente rivolta alle relazioni economiche con la Malesia e le Filippine, due regimi multipartiti e non propriamente “comunisti”, dove però anche qui sta trovando serie difficoltà di rafforzare i rapporti diplomatici. La Malesia è un regime “ibrido” la cui popolazione a maggioranza musulmana malese si oppone fermamente al comunismo. E nonostante i legami economici, con la Cina vi è una forte contesa sullo sfruttamento petrolifero nelle acque del Mar Cinese Meridionale.
Anche le Filippine, una democrazia dove si svolgono libere elezioni – anche se “imperfetta” – hanno presentato rivendicazioni alla Corte di Giustizia all’Aia sulle acque contese con la Cina. Ed è il caso di ricordare che il Presidente Rodrigo Duterte, il 19 aprile scorso, ha affermato che invierà navi militari per rivendicare la sovranità di Manila nel caso sia necessario tutelare le risorse di petrolio e minerali nel Mar Cinese Meridionale cui non intende rinunciare, dopo che circa 220 imbarcazioni cinesi si erano portate nei pressi delle scogliere Whitsun Reef, nelle acque dell’ arcipelago delle Spratly o Nansha, rivendicate dai cinesi.

Anche la tanto evocata Belt and Road Initiative (BRI), nella realtà, presenta molti limiti. Innanzitutto, va rilevato che non si propone come modello economico in termini ideologici, il che è un dato che ha uno specifico rilievo nel contesto cinese in cui il Partito Comunista Cinese di norma subordina tutto alla sua ideologia, per affermare la sua sopravvivenza politica e la sovranità territoriale. Invece, come ha osservato il politologo Yeling Tan, gli sforzi economici cinesi all’estero sono “principalmente il prodotto della disordinata politica interna del paese e non il risultato di un piano generale coordinato”.
La BRI ha portato gli investimenti cinesi e lo sviluppo delle infrastrutture in più di cento paesi, ma la politica e le istituzioni locali hanno spesso contrastato le “istruzioni” di Pechino. Ad esempio, il grande progetto Melaka Gateway in Malesia – uno “sviluppatore off-shore” di isole artificiali a Malacca, destinato a diventare un grande hub continentale per il traffico turistico e commerciale – è stato sospeso quando Mahathir Mohamad, uno “scettico” della politica filo-cinese, ha sostituito Najib Razak come primo ministro nel 2018.
L’analisi di Foreign Affairs prosegue ancora con altre esemplificazioni sui limiti dell’azione strategica cinese, giungendo quindi all’ avvertimento: attenzione, se Pechino intravede la competizione geopolitica combattuta su basi ideologiche è molto probabile che si determini a dare priorità all’adozione di più gravi contromisure per indebolire le democrazie. E queste potrebbero andare bene oltre le attuali esportazioni di tecnologia di sorveglianza e le campagne di disinformazione, fino ad includere tentativi più espliciti di promuovere in altri paesi il modello di successo economico cinese. Peraltro, la diplomazia dei “Wolf Warrior” di Pechino – un gruppo di diplomatici molto aggressivi, che formulano in comunicazioni pubbliche accuse taglienti, minacciose o anche del tutto infondate, in pieno stile trumpiano – ha già dimostrato la sua capacità di amplificare le critiche all’interno delle democrazie, anche se “sinora” – evidenziano gli analisti – la Cina si è astenuta dalle iniziative in stile russo di interferire nelle elezioni statunitensi.
In sostanza, sottolineare la necessità di contrastare l’autoritarismo in tutto il mondo potrebbe aumentare i timori della Cina che Washington cerchi un cambiamento di regime a Pechino e intenda promuovere altre iniziative internazionali ancora più dirompenti a suo danno. Inquadrare la strategia degli Stati Uniti come una competizione tra democrazia e autoritarismo può anche allontanare maggiormente quei paesi che hanno una limitata attrazione ideologica nei confronti degli Stati Uniti e indurli a orientarsi sulla Cina, sia per affinità ideologica che per interessi nazionali. Anche il target di ciò che va definito “democratico” può essere un problema. Da un lato, sarebbe controproducente se gli Stati Uniti fissassero un livello troppo alto per entrare nella casa delle democrazie, perché molti sarebbero gli esclusi, che quindi migrerebbero verso la Cina. Ma anche un approccio opposto – definendo “democratici” partner discutibili, trascurando i loro abusi interni – diluirebbe il termine, aprendo gli Stati Uniti alle accuse di ipocrisia e minando la “leadership morale” degli Stati Uniti.

L’Indonesia offre una lezione istruttiva, osservano ancora gli analisti di Foreign Affairs. È un partner statunitense strategicamente importante, ma la sua democrazia è oggi molto fragile: l’amministrazione del presidente Joko Widodo ha usato tattiche repressive per soffocare le critiche e la mobilitazione dell’opposizione, e l’esercito indonesiano svolge un ruolo di primo piano nella politica nazionale. Ma anche lasciando da parte tali questioni, per gli indonesiani gli appelli alla superiorità della democrazia liberale non supererebbero i benefici economici immediati del commercio con la Cina. Molti indonesiani diffidano di quelli che essi considerano gli eccessi del liberalismo americano e del rancore della politica statunitense. L’approccio della Cina all’Indonesia è incentrato sull’approfondimento delle relazioni commerciali, sulla garanzia dell’accesso alle risorse naturali e sull’ internamento in quel paese di circa due milioni di Uiguri. Tuttavia, queste misure non hanno comprato la deferenza dell’Indonesia agli interessi cinesi nel Mar Cinese Meridionale. In effetti, i forti legami economici con la Cina raramente creano Stati fantoccio: casi come la Cambogia, una dittatura che si è dimostrata un utile partner cinese nel sud-est asiatico, sono rari e guidati da modelli di alleanza regionale e legami storici. Ma non è detto che inasprendo le esclusioni degli stati non-democratici non si possa allargare maggiormente proprio l’area di influenza cinese.

Per gli analisti di FA, dunque, il rischio finale è che l’ideologia delle “democrazie” spinga le autocrazie, la Cina e la Russia in particolare, ma non solo, ad approfondire i loro rapporti di cooperazione. Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno avuto più successo quando hanno saputo sfruttare le fratture tra i due rivali comunisti. Oggi non c’è che un’inevitabile “alleanza di autocrazie”, e inquadrare la politica internazionale come una “competizione di sistemi” non offre certezze che prevalga quello da noi prescelto.
Sebbene si sia tentati di vedere la crescente influenza della Cina come un presagio di crescente autoritarismo in tutto il mondo, le radici della crisi delle democrazie nella maggior parte dei paesi sono interne. E Pepinsky e Weiss le individuano essenzialmente nei seguenti aspetti: il risentimento popolare per la perdita percepita di sicurezza economica, i pregiudizi sulle risorse destinate agli immigrati; il distacco dalle élite politiche e intellettuali; la crisi occupazionale derivante dalla delocalizzazione della globalizzazione e dalla de-industrializzazione; la polarizzazione e la disinformazione alimentate da un mondo digitale vagamente regolamentato. E proseguono ancora l’analisi in termini più severi verso la politica dominante del loro Paese: gli Stati Uniti farebbero meglio a difendere la democrazia senza fare dell’ideologia il centro del loro approccio nei confronti della Cina. A livello internazionale, gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi nuovamente a dare l’esempio, “facendo ordine in casa propria”. I leader americani devono riconoscere che porre le basi per una democrazia consolidata richiede qualcosa di più che limitarsi a tenere elezioni, e considerare anche che le riforme di governance, pure in democrazie altamente imperfette, producono benefici tangibili. In effetti, anche i paesi autoritari possono avere un concreto interesse per le riforme che migliorino i risultati, anche in termini di aumentato consenso.
In ultima analisi, per Foreign Affairs l’amministrazione Biden dovrebbe adoperarsi per configurare un ordine internazionale “aperto” e basato su regole che lo renda abbastanza flessibile per accogliere sia i paesi liberali sia i paesi “illiberali”, nell’ ottica di avere questi ultimi più vicini, convincendoli sulla bontà dei valori democratici con il soft-power della diplomazia e dei buoni argomenti anche della cooperazione economica. L’ascesa della Cina non deve essere motivo per compromettere definitivamente l’ordine internazionale esistente, tenendo presente che è proprio la Cina che sostiene la versione più conservatrice della pace di Westfalia e dei principi di sovranità e non interferenza. Proprio su questi principi, se si ricercasse un dialogo con la Cina sarebbe più facile indurla a ragionare affinché si limiti nei suoi progetti espansivi nelle altre società.
Se da un lato è opportuno, sul piano dell’azione internazionale, che si approfondiscano gli aspetti controversi dei Paesi autoritari o corrotti, gli Stati Uniti dovrebbero comunque concentrare l’attenzione su questioni di interesse comune come il clima e la salute, da cui potrebbero derivare maggiori benefici per la competitività e l’influenza degli Stati Uniti. Come ha scritto di recente sul Financial Times Anne-Marie Slaughter, CEO di New America – un think tank americano che gestisce una nota “piattaforma di innovazione civica” – “un fondo presidenziale speciale per combattere la pandemia di HIV-AIDS ha realizzato più risultati per la reputazione dell’America in Africa dei molti sforzi diretti a combattere l’ingerenza cinese sul continente”.
Da qui la conclusione di Foreign Affairs: anche se l’amministrazione Biden intende promuovere una causa comune con le altre democrazie, dovrebbe investire risorse anche nel cercare di mantenere la Cina in un ordine internazionale più “flessibile”. Se i leader cinesi si convincessero che Washington non permetterà mai a Pechino di svolgere un ruolo guida sulla scena mondiale, si arriverebbe a quello “scontro globale” che gli Stati Uniti devono sforzarsi di evitare, se vogliono proporsi essi stessi alla guida di una nuova leadership internazionale.

In buona sostanza, la preoccupazione degli accademici della Cornell University sembra quella avuta anche dall’ Unione Europea che bene ha fatto a marcare le differenze, riprendendo la posizione del premier Draghi, concertata con Macron e la Merkel: “Con la Cina bisogna innanzitutto cooperare, poi competere ed anche essere franchi sulle cose che non condividiamo”, ricordando soprattutto l’urgenza di un’intesa con la Cina per la lotta conclusiva alla pandemia e la sfida sui cambiamenti climatici.
E bisogna riconoscere che la Cina stavolta non si è affidata ai Wolf Warrior e ha sinora reagito in maniera composta, con argomenti che hanno avuto anche una certa efficacia. Senza che si esponesse il leader massimo, un portavoce dell’ambasciata londinese ha dichiarato: “Sono finiti i tempi di quando un piccolo gruppo di Paesi poteva decidere i destini del mondo (…) noi crediamo che i Paesi, grandi o piccoli, forti o deboli, poveri o ricchi, siano tutti uguali, e che gli affari del mondo devono essere gestiti attraverso la consultazione tra Paesi”.

Forse altrettanto efficace è stata la risposta affidata all’ illustratore Bantonglaoatang in una vignetta ripresa dal Global Times, un tabloid prodotto dal quotidiano ufficiale del Partito Comunista Cinese. Si tratta di una versione geopolitica dell’Ultima cena di Leonardo, con le potenze del G7 rappresentate da animali: c’è l’aquila americana al centro, che produce banconote, e in luogo degli apostoli ci sono i suoi alleati con al centro del tavolo una torta che reca l’immagine della Cina, che dovrebbe essere spartita. «Così possiamo ancora dominare il mondo», sembrano irretire gli Stati Uniti nel rivolgersi agli alleati.
Ma la reazione dei commensali non è scontata: l’Italia, rappresentata da un lupo, il simbolo dell’antica potenza romana, con un inequivoco gesto delle mani di distacco sembra esplicitamente disinteressata all’invito, mentre il gallo francese e il falco tedesco sembrano interessati ad altro. «Ci sono differenze strategiche tra Stati Uniti ed Europa – spiega il quotidiano di regime – e se la Cina sviluppa relazioni con gli altri Paesi può disinnescare la trama americana».
Come ha scritto Nadia Urbinati, la prospettiva di una nuova guerra tra Atene e Sparta non ha convinto l’Europa.

* Membro dell’International Law Association, dell’Associazione Italiana Giuristi Europei e dell’Associazione Italiana di Sociologia.