Clima. Venti aziende responsabili del 35% delle emissioni di CO2

di C. Alessandro Mauceri –

Quando si parla di ambiente o di ecosostenibilità, spesso si finisce per cercare di individuare i responsabili dei danni prodotti.
Pochi giorni fa, il Climate Accountability Institute americano ha presentato uno studio dal titolo Climate accountability as a fulcrum for climate stewardship, nel quale sono ribadite, dati allla mano, le “colpe” delle aziende produttrici di combustibili fossili. Anzi secondo i ricercatori queste imprese avrebbero addirittura “guidato” la crisi climatica, essendo a conoscenza dei pericoli che comporta l’uso dei loro prodotti. L’analisi, condotta da Richard Heede, ha evidenziato che le prime 20 aziende mondiali del settore petrolifero sono responsabili del 35% di tutte le emissioni mondiali di biossido di carbonio e metano derivanti dal settore energetico. Dal 1965, sarebbero responsabili di 480 miliardi di tonnellate equivalenti di biossido di carbonio (GtCO2). Già un paio d’anni fa lo stesso ente aveva realizzato un altro studio le cui conclusioni erano analoghe: oltre la metà dell’anidride carbonica emessa nell’atmosfera dal 1988 deve essere ricondotta a poche decine di aziende, con ai primi posti anche le società che estraggono carbone, come la China Coal.
E’ importante notare che, secondo il nuovo rapporto, più della metà delle 20 aziende del settore maggiori responsabili delle emissioni di CO2 sono statali, di proprietà o controllate da governi. La prima assoluta tra le aziende petrolifere responsabili di queste emissioni, Aramco, che contribuisce da sola per il 4,38%, è gestita dal governo saudita.
Lo stesso vale per la plastica (i due settori sono legati a doppio filo). Spesso i responsabili restano nel buio e le promesse finiscono nel dimenticatoio. Come quella fatta il 15 agosto scorso (Giorno dell’indipendenza dell’India) dal primo ministro di Nuova Delhi Narendra Modi. Questo aveva promesso di “fare il primo grande passo” e di vietare la plastica monouso dal 2 ottobre (150esimo anniversario della nascita di Mahatma Gandhi). Una promessa importante: secondo un rapporto pubblicato nel 2017 dalla Commissione centrale per il controllo dell’inquinamento (Central pollution control board) in India, ogni giorno, finiscono nella spazzatura circa 25.940 tonnellate di rifiuti di plastica. Subito dopo però alcune note hanno riportato stime che parlavano di raggiungere l’obiettivo di un’India senza plastica nel 2022. “Il primo ministro Modi non ha parlato di ‘divieto’, ma di ‘addio’ ai rifiuti in plastica monouso” ha detto Prakash Javadekar, ministro dell’Ambiente, delle foreste e per i cambiamenti climatici. Alla fine il mese di ottobre è giunto e di eliminare la plastica, in India, non si parla più, anzi, il governo indiano avrebbe fatto capire che, almeno nel medio periodo, non verranno adottati provvedimenti per vietare sacchetti, bicchieri, piatti, bottigliette, cannucce e bustine di plastica, ribadendo soltanto l’impegno a limitarne l’utilizzo. Questo significa che l’India, in barba alle promesse fatte, continuerà a scaricare nell’ambiente milioni di tonnellate di plastica ogni anno.
Il settore delle materie plastiche è uno dei più fiorenti e in crescita in tutto il pianeta (insieme a quello degli armamenti). Nonostante le promesse, la produzione mondiale di plastica è passata dai 15 milioni di tonnellate del 1964 agli oltre 310 milioni nel 2018 (“Proceedings of the National Academy of Sciences”) e potrebbe raggiungere i 34 miliardi di tonnellate entro il 2050. Solo una minima parte (tra il 2 e il 4%) viene realmente riciclata, il resto finisce nell’ambiente con enormi danni all’ecosistema.
Produzione di plastiche e idrocarburi camminano insieme: il 99% delle materie polimeriche sintetiche sono derivati del petrolio.
Un settore decisamente fiorente negli USA dove secondo il Center for International Environmental Law è in atto una rivoluzione del petrolio e del gas di scisto:“Poiché la produzione di combustibili fossili è altamente localizzata in aree specifiche, anche la fabbricazione di materie plastiche si concentra in specifiche regioni, in particolare nella costa del Golfo degli Stati Uniti”, come è scritto nel rapporto Fueling Plastics.
Strettamente legato all’uso delle materie plastiche è il settore dei farmaci e anche qui non mancano le sorprese. Secondo uno studio recentemente pubblicato sul Journal of Cleaner Production, le maggiori industrie farmaceutiche del mondo produrrebbero emissioni in termini di CO2equivalenti superiori anche a quelle emesse dall’industria automobilistica o dal settore agricolo. Lotfi Belkhir, professore associato e presidente di eco-imprenditoria presso la McMaster University in Ontario, ha dichiarato: “Raramente si parla di industria farmaceutica che evoca immagini di fumaioli, inquinamento e danni ambientali … la realtà dei fatti è che invece il settore farmaceutico è tutt’altro che ecologico”.
Una delle regole riconosciute a livello globale è quella secondo la quale “Chi inquina, paga”. Eppure nessuno ha mai preteso che queste grandi industrie paghino i danni causati all’ambiente (tranne in casi eccezionali, come per gli sversamenti di petrolio).
A pagare sono (e saranno sempre) gli “altri”: i cittadini, specie quelli dei paesi poveri, i meno responsabili delle emissioni di CO2 e dei danni all’ambiente. Secondo uno studio che ha calcolato le emissioni di biossido di carbonio in rapporto alla popolazione, in Africa (ad eccezione del Sud Africa), le emissioni sono bassissime, spesso, prossime allo zero: 0,05t/uomo nella RDC, 0,08 in Niger e 0,04 in Ciad. Ma basta andare nei paesi “sviluppati” (quelli che, sulla carta, dovrebbero sapere l’impatto che hanno sull’ambiente) per registrare un’impennata di questi valori: in Europa dove si registrano 6,7 tonnellate pro capite dell’Italia, 7,9 nel Regno Unito, 8,92 della Germania e 10,43 nella Repubblica Ceca. Se poi si guarda oltreoceano, in Canada, le emissioni salgono a 14,14 ton/pro capite e addirittura a 17,02 negli USA. I livelli più elevati in assoluto sono registraati nell’Arabia Saudita: oltre 18 ton/pro capite, ovvero proprio nel paese dove si registrano le maggiori emissioni legate alle industrie del petrolio. E a farlo è un’azienda “statale”.
“La grande tragedia della crisi climatica è che sette miliardi e mezzo di persone devono pagare il prezzo – sotto forma di un pianeta degradato – in modo che un paio di dozzine di interessi inquinanti possano continuare a realizzare profitti record. È un grande fallimento morale del nostro sistema politico che abbiamo permesso che ciò accadesse ” ha detto Michael Mann, uno dei principali scienziati climatici del mondo, che ha invitato i politici che parteciperanno alla prossima COP a prendere provvedimenti urgenti.
Visti i numeri, sarebbe utile che questo invito (e quelli di tutti gli ambientalisti, in erba o cresciuti) venisse rivolto a quello sparuto novero di persone alla guida delle multinazionali, molto spesso le vere responsabili dei cambiamenti climatici in atto su tutto il pianeta ma alle quali nessuno spesso osa rivolgere i propri appelli.