Erdogan è un dittatore. Perchè…

di Dario Rivolta * –

È inutile domandarsi se quando Mario Draghi ha definito “dittatore” il rais turco Recep Tayyp Erdogan abbia commesso o meno un errore semantico. Probabilmente, considerata la presenza di partiti alternativi al suo (Giustizia e Sviluppo – AKP), il termine più appropriato sarebbe stato “autoritario” o “autocrate”. Comunque sia, la sostanza non cambia: la Turchia di Erdogan non è una democrazia liberale e l’attuale presidente la governa senza alcun rispetto delle minoranze e delle opposizioni.
In realtà da quando il partito islamista (AKP) è al potere, in tanti abbiamo commesso un errore di prospettiva. Abbiamo creduto che fosse un partito confessionale e tuttavia aperto al dialogo, sinceramente democratico. Lo abbiamo confuso, sbagliando di molto, con ciò che è stato per noi la Democrazia Cristiana e abbiamo immaginato di aver scoperto per la prima volta un partito islamista che finalmente avesse abbracciato i nostri valori di convivenza.
Purtroppo l’idea che il processo di democratizzazione in Turchia sia deragliato a causa del colpo di Stato è soltanto un mito abilmente orchestrato da Erdogan e dai suoi sodali. Se rileggiamo con attenzione e con occhio meno ingenuo tutta la sua storia politica e di come, una volta conquistatolo, abbia gestito il potere scopriamo che ogni cosa che ha fatto è stata uno strumento opportunisticamente impiegato per conquistare lo Stato, eliminare i residui kemalisti ancora al potere, disinnescare l’opposizione dei curdi e ottenere aiuti e finanziamenti dall’Unione Europea.
Ci ha ingannati e noi, vittime della nostra fobia antimilitarista che ci portava sempre a identificare le forze armate con l’autoritarismo, abbiamo sinceramente creduto che la sua iniziale occupazione di tutti i centri di potere fosse un passaggio necessario a sottrarre la Turchia allo strapotere dei militari e portarla verso la democrazia. Accecati dal nostro ideale della divisione dei poteri istituzionali, ci siamo convinti che il suo obiettivo fosse sinceramente di ridare un ruolo sovrano al Parlamento e di soddisfare la volontà popolare.
La legislazione di emergenza varata il 20 Luglio 2016 dopo il tentato colpo di stato del 15 luglio precedente non è stata invece l’inizio di una involuzione autoritaria, bensì il completamento di un disegno cominciato almeno dal 1999 e formalizzatosi con la sua prima vittoria elettorale nel 2002. Erdogan, all’inizio con l’aiuto del movimento integralista religioso guidato dal “santone” Fetullah Gulen, cominciò da subito ad occupare volta per volta i ruoli chiave nel sistema giudiziario e legislativo. Agli occhi degli europei sembrava un passaggio indispensabile per estromettere da quelle posizioni i militari che ne avevano approfittato più volte, nel 1960, nel 1971 e nel 1980 per impedire qualunque cambiamento dell’organizzazione, ancora laica, dello Stato. I militari furono colpiti con processi farsa le cui prove, lo si è accertato in seguito, erano state inventate ad arte. Si trattò, con i processi detti Ergenekon (2008) e Slegdehamer (2010), di accusare di inesistenti nuovi tentativi colpi di stato alcuni militari di alto livello, politici e giornalisti che furono immediatamente sostituiti ancora prima delle sentenze definitive. Quei processi farsa furono possibili perché i gulenisti avevano già infiltrato la magistratura e si voleva così eliminare coloro che avrebbero potuto ancora opporsi alla conquista del potere dei nuovi arrivati. I gulenisti e lo stesso Erdogan avevano fatto proprio, magari senza saperlo, il concetto gramsciano che lo Stato andava conquistato infiltrandosi inesorabilmente in tutti i posti chiave delle istituzioni.
Per Erdogan, prima di allora, era stato indispensabile fingere un volto democratico per ottenere la candidatura turca all’ingresso nell’Unione Europa, cosa che avrebbe significato il ricevere sostanziosi (e molto generosi) aiuti economici da Bruxelles. Le negoziazioni iniziate nel 1999 avevano raggiunto l’obiettivo di ufficializzare la candidatura nel 2005. Noi europei plaudimmo senza capirne l’obiettivo finale all’eliminazione dei centri di potere dei militari poiché l’AKP ai nostri occhi era sì una forza islamista ma “neoliberale” e combatteva lo statalismo laico in quanto “non democratico”, perché kemalista. Nonostante la nostra voluta cecità, già a partire dagli anni 2010, Erdogan fu responsabile di un processo di arresto e arretramento della democrazia in Turchia, aggravato da un alto indice di corruzione. In seguito alle grandi proteste del 2013, cominciò ad imporre una crescente censura sulla libertà di stampa e sui social media, decidendo, tra l’altro di bloccare siti come YouTube, Twitter e Wikipedia.
Il sodalizio tra Gulen ed Erdogan si ruppe quando entrambi decisero che il primo obiettivo era raggiunto e si trattava allora di conquistare tutto il potere solo per sé. Nel 2011, quando Erdogan dopo le elezioni che lo avevano visto nuovamente vincitore, annunciò l’intenzione di rafforzare il suo potere personale con una prima riforma costituzionale, il Gulenisti tentarono di indebolirlo lanciando delle inchieste per corruzione che toccavano il suo stretto entourage. Il 17 Dicembre 2013, 52 sodali del Rais (cioè: Capo- come ama farsi chiamare dalla stampa che controlla, così come Kemal Ataturk era stato chiamato Ata, il padre) furono arrestati e la guerra tra i due ex alleati si trasformò in uno scontro aperto. Erdogan accusò gli investigatori di tentare un colpo di stato e sostituì nella magistratura e nella polizia i Gulenisti più esposti.
Il colpo di stato del 15 Luglio 2016, attribuito con qualche ragione a Fetullah Gulen, può essere letto come l’ultimo disperato tentativo di opporsi al crescente strapotere di Erdogan.
Il rais aveva già dalla sua tutti i vertici dei servizi segreti e, visto lo svolgersi degli avvenimenti, non si può affatto escludere che sapesse in anticipo ciò che stava per succedere. La legislazione di emergenza, stranamente già pronta il 20 Luglio, è stata la più vasta “purga” condotta nella storia del Paese. La lista degli accusati era chiaramente predisposta e includeva migliaia di persone. Furono colpiti e arrestati militari, poliziotti, giudici, accademici, insegnanti, medici. Furono chiuse o sostituiti i vertici di università, dormitori, scuole, radio, televisioni, giornali, agenzie di stampa e perfino Banche del Cibo e altre diverse organizzazioni della società civile. Furono confiscate numerose aziende e sostituiti alcuni amministratori locali con dei commissari dell’AKP. Due sui 17 membri della Corte Costituzionale furono “dimissionati” e 10 su 22 magistrati del High Council of Justice and Prosecutors (il nostro Consiglio Superiore della Magistratura) furono arrestati. Il colpo finale per la totale conquista del potere è stata la modifica della Costituzione del 2017, ottenuta tramite un referendum per il quale, molto abilmente, Erdogan ottenne il sostegno di alcuni gruppi nazionalisti. Con i poteri datigli dalla nuova Costituzione, il presidente può oggi nominare, senza bisogno di convalide, i vicepresidenti, i ministri e gli alti funzionari dello stato. Può fare leggi per decreto e decidere il budget senza l’approvazione del Parlamento. Quest’ultimo può essere sciolo a sua personale discrezione e l’unico potere che resta ai deputati, non essendo nemmeno possibile l’espressione di un voto di sfiducia al governo, è quello di sottomettere interrogazioni ai ministri. Non però allo stesso presidente. La Commissione di Venezia e il Consiglio d’Europa hanno dichiarato che questa Costituzione “porta a una eccessiva concentrazione del potere esecutivo nelle mani del presidente e che “la responsabilità democratica del presidente è sostanzialmente assente”. In altre parole si tratta di una Costituzione non democratica.
Quanto poco sia “europea” la Turchia di oggi è sotto gli occhi di tutti. Basta sapere che tutte le opere pubbliche sono da anni assegnate per semplice volontà del governo e solamente a società che abbiano dimostrato la loro fedeltà alla nazione, cioè alla persona dl presidente. L’80% dei media, sia su carta, radio, televisione e internet, è nelle mani dell’autorità. Il partito curdo, HDP, è stato giudicato “terrorista” e alcuni suoi deputati sono stati arrestati nonostante l’immunità parlamentare.
Come se non bastasse, il governo ha recentemente lanciata una sua peculiare lotta contro le “fake news”. Lo ha fatto con la creazione di una applicazione denominata DOGRU MU? (È VERO?) che risponderà ad ogni domanda che chiedesse se le informazioni che circolano sui media siano vere o false. È evidente che questa applicazione finisce con l’essere molto simile al Ministero della Verità ipotizzato in 1984 di Orwell. Si tratta infatti di una commissione i cui membri sono nominati dallo stesso governo e che dovrà dichiarare se la notizia sia vera o falsa. Non a caso il decreto presidenziale che l’ha fatta nascere le assegna il compito di “contrastare ogni forma di manipolazione, propaganda e disinformazione contro la Repubblica Turca”, cioè contro lo stesso Erdogan.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.