G20 di Venezia: si va avanti su Global minimum tax e riduzione del debito per i Pvs

Ma priorità anche alla “Pandemic age” e ai cambiamenti climatici.

Nonostante le proteste degli ambientalisti “contro le grandi navi a Venezia”, il G20 della laguna conferma la priorità delle misure per i cambiamenti climatici, che potrebbero prevedere anche una carbon tax più incisiva. Il “Panel sui beni comuni globali” lancia invece l’allarme sulle future pandemie e sollecita un piano di 75 miliardi di dollari. Sono quattro gli ambiti dell’intervento: 1) la sorveglianza delle malattie infettive; 2) la capacità di resilienza dei sistemi sanitari nazionali; 3) la capacità globale di produrre e distribuire vaccini e altre contromisure mediche; 4) la governance globale. Ma a Venezia i ministri delle Finanze e i governatori delle banche centrali hanno anche confermato le politiche finanziarie globali sulla riduzione del debito per i PVS e lanciato l’idea di “un’architettura fiscale internazionale più stabile e più equa”, con la global minimum tax al 15%. L’appuntamento finale è al G20 di ottobre, ma sarà interessante anche vedere l’approccio e le proposte che verranno dal “Y20 Summit”, il vertice dei giovani del G20, che si terrà a Milano e Bergamo dal 19 al 23 luglio. Intanto, l’Italia incassa un altro punto a favore della sua leadership: la direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale si è dichiarata “molto colpita dalla performance della presidenza italiana del G20”.

di Maurizio Delli Santi * –

Lo scenario del G20 di Venezia.
L’attenzione sul G20 di Venezia è stata richiamata dalle notizie sulla manifestazione indetta dal movimento “No Grandi Navi”, che ha registrato alcuni momenti di tensione. La protesta è stata rivolta contro lo sfruttamento turistico della città lagunare e, richiamando i termini ideologici degli organizzatori, contro lo “strapotere della finanza fossile”. La nota di cronaca non può essere omessa, perché anzi riconduce i grandi temi delle “sfide globali” ai possibili scenari di conflittualità che potrebbero esacerbarsi, ove le misure che gli Stati adottano nei vertici internazionali non vengano adeguatamente dibattute e condivise fra tutte le componenti della società civile. Ma in proposito va riconosciuta l’attenzione che la presidenza italiana del G20 ha voluto conferire anche alle giovani generazioni attivando la piattaforma “Young Ambassadors Society” e prevedendo lo specifico evento “Y20 Summit”, il vertice dei giovani del G20, che si terrà a Milano e Bergamo dal 19 al 23 luglio. E ancora più importante sarà lo “Youth4Climate: Driving Ambition”, organizzato a Milano, dal 30 settembre al 2 ottobre, in vista della COP26, l’attesa Conferenza sul clima che è prevista per novembre a Glasgow.

Venezia, simbolo della vulnerabilità per i cambiamenti climatici.
Il G20 dei ministri delle Finanze e dei governatori delle banche centrali svoltosi a Venezia, dal 9 all’11 luglio, ha dedicato la giornata conclusiva alla Conferenza internazionale sul cambiamento climatico, organizzata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e dalla Banca d’Italia. Tra i partecipanti sono intervenuti la direttrice del Fondo Monetario Internazionale Kristalina Georgieva, il presidente della Banca Mondiale David Malpass, il presidente del Financial Stability Board Randall Quarles, e Mark Carney, inviato speciale della COP26 per la finanza. I lavori della Conferenza sono stati aperti dal Premio Nobel per l’Economia William Nordhaus che ha evidenziato le carenze nell’azione di contrasto al cambiamento climatico intrapresa finora e la necessità di politiche maggiormente efficaci e di accordi vincolanti. Il ministro delle Finanze Franco ha invece evocato la bellezza vulnerabile di Venezia per ricordare che i problemi del cambiamento climatico rappresentano “una minaccia alle persone, al pianeta e alla prosperità” e “sono in grado di generare shock e rischi per la stabilità finanziaria”. Di fatto la Conferenza ha suggellato le conclusioni del dibattito svoltosi nei giorni scorsi, che ha visto diversi passaggi importanti. Tra questi ha avuto rilievo l’intervento della direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale, la bulgara Kristalina Georgieva, che sul tema della tassazione green dei “costi climatici” ha chiesto un “segnale potente” sui prezzi delle emissioni di Co2, che dagli attuali 3 dollari dovrebbero essere portati a 75 dollari per tonnellata.
Il commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni ha fatto anche riferimento al progetto ambizioso che sarà discusso a Bruxelles per rivedere una serie di misure sulla tassazione energetica, ormai datata, introducendo un meccanismo di “adeguamento del carbonio alle frontiere” (carbon border adjustment mechanism) e prevedendo l’estensione a nuovi settori del sistema europeo di scambio di quote di emissione di gas a effetto serra (European Union Emissions Trading System – EU ETS).
Per i non addetti, basterà qui ricordare alcuni principi che regolano i due meccanismi. Il primo è in sostanza la carbon tax sulle filiere globali, che dovrebbe tutelare le imprese europee dalla concorrenza di Paesi terzi introducendo un dazio ad hoc ed evitando le “fughe di carbonio”. Ma la proposta della carbon tax non piace a tutti, in particolare a Cina e India, con i quali si rischia di inasprire le intese sul clima. E non convince neanche gli USA, la cui posizione espressa dalla Segretaria al Tesoro Janet Yellen è invece di concentrarsi sulle policy dei singoli Paesi perché una carbon tax di 75 dollari a tonnellata di Co2 potrebbe indurre le imprese a delocalizzare nei Paesi a tassazione più bassa.
L’ETS invece è un meccanismo già operante che impone un prezzo ai cosiddetti “diritti ad inquinare”, basato su un sistema di quote che possono essere acquisite/cedute. Il sistema è in atto nei principali settori industriali e nel comparto dell’aviazione e fissa un prezzo per ogni tonnellata di CO2 emessa da circa 10.000 installazioni all’interno dell’Ue. L’attuale regime copre circa il 40% delle emissioni totali di gas a effetto serra dell’Ue, mentre il restante 60% è coperto dal “regolamento sulla condivisione dello sforzo”, che riguarda le emissioni dei trasporti, dell’industria e dell’agricoltura. Il meccanismo funziona fissando un tetto di emissioni totali che decresce nel tempo, con le aziende che possono quindi acquistare e scambiare permessi di emissione. L’attuale tetto è stato progettato per consentire una riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030. Con la riforma, la Commissione europea mira ad adeguare il tetto al nuovo obiettivo di ridurle del 55%, e ad estendere l’ETS probabilmente al settore marittimo, al riscaldamento domestico e al trasporto stradale (fonti: Ministero Ambiente; Euractiv).
Altra questione centrale affrontata a Venezia ha riguardato la cd “finanza climatica”, per la quale le 20 più grandi economie del mondo si sono impegnate ancora sul trasferimento di fondi dai paesi ricchi e inquinanti a quelli poveri, tenuto conto che nel 2020 per l’ONU 19 paesi sono considerati “gravemente vulnerabili”, 72 sono valutati “vulnerabili” e 5 sono individuati in pieno “default”: Argentina, Suriname, Libano, Zambia ed Ecuador. Le risorse, individuate in circa 100 miliardi di dollari – su cui l’Italia sarebbe il Paese più in ritardo – sono attese anche dal V20, i Vurnerable Twenty, il gruppo dei 48 paesi “associati” al G20 che sono a rischio sopravvivenza per le emergenze climatiche, tra cui figurano Maldive, Sri Lanka, Costa Rica, Senegal.
Ma sotto il profilo delle politiche finanziarie globali i ministri e i governatori delle banche centrali hanno accolto anche i risultati raggiunti grazie all’iniziativa sulla “sospensione del debito” (Debt Service Suspension Initiative – DSSI), che prevede un impatto di circa 4.6 miliardi di dollari nella prima metà del 2021 e tra i primi destinatari il Ciad e l’Etiopia. È stata inoltre sottolineata l’importanza che i creditori privati e gli altri creditori ufficiali pubblici concedano un trattamento del debito a condizioni almeno altrettanto favorevoli.

La lotta alla pandemia: il rapporto “A Global Deal for Our Pandemic Age”.
Al G20 di Venezia è stata presentata anche l’analisi del “Panel Indipendente” di esperti di alto livello “per il finanziamento di beni comuni globali per la preparazione e la risposta alle crisi pandemiche” (High Level Independent Panel, HLIP on financing the global commons for pandemic preparedness and response), che ha affrontato il tema della lotta alla pandemia. Qui l’intervento più forte è stato quello della direttrice generale dell’Organizzazione Mondiale per il Commercio, Ngozi Okonjo-Iweala, ex ministro delle finanze dalla Nigeria, che ha lanciato un fermo avvertimento: purtroppo il Covid 19 rappresenta solo “una prova generale” di altre future pandemie. Nel rapporto ‘A Global Deal for Our Pandemic Age’, il Panel prevede il rischio di una nuova grave pandemia entro un decennio, e invita quindi il G20 e la comunità internazionale ad agire rapidamente prevedendo un incremento dei finanziamenti pubblici internazionali di 15 miliardi l’anno nei prossimi cinque anni, per un totale di 75 miliardi, da destinare alla prevenzione e alla preparazione nella lotta alle pandemie, raddoppiando in sostanza la spesa attualmente prevista. Secondo gli esperti del Panel, gli investimenti necessari sono maggiori ma sempre trascurabili rispetto ai costi di un’altra grande pandemia: i costi che le pandemie comportano per i soli bilanci pubblici sono fino a 700 volte superiori agli investimenti aggiuntivi annuali internazionali proposti dal Panel.
Sono quattro le lacune identificate come urgenti dal gruppo di esperti: 1) la sorveglianza delle malattie infettive, 2) la capacità di resilienza dei sistemi sanitari nazionali, 3) la capacità globale di produrre e distribuire vaccini e altre contromisure mediche, 4) la governance globale.
I 15 miliardi di dollari in più all’anno di finanziamenti prevedono anche un nuovo fondo di 10 miliardi di dollari l’anno per le minacce globali alla salute e includono 5 miliardi di dollari all’anno per aumentare il finanziamento delle istituzioni internazionali. Vengono proposti il rafforzamento dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e il sostegno alle attività dell’International Development Association (IDA) del Gruppo Banca Mondiale e nelle Banche Multilaterali di Sviluppo (BMS). Il Panel chiede anche la creazione di un nuovo “Consiglio per le minacce sanitarie globali”, che riunisca i ministri delle Finanze e della Salute e le organizzazioni internazionali per garantire risorse e coordinamento tempestivi ed efficaci degli sforzi internazionali per mitigare le minacce pandemiche. Il Panel ha inoltre sottolineato l’imperativo per tutte le nazioni di dare priorità agli investimenti nella preparazione alle pandemie, affermando che i Paesi a basso-medio reddito dovrebbero incrementare la spesa pubblica per la sanità di circa l’1% del PIL nei prossimi cinque anni, un impegno integrato con un maggiore supporto di partner finanziari multilaterali e bilaterali.
Le raccomandazioni andranno quindi al vaglio del vertice congiunto dei ministri delle Finanze e della Salute previsto a ottobre, poco prima del vertice conclusivo del G20 a guida italiana che si svolgerà il 30 e 31 Ottobre, a Roma.
Intanto, il G20 ha sollecitato nuovi interventi del Fondo Monetario Internazionale per la lotta alla pandemia, manifestandosi disponibile a concedere 650 miliardi di diritti speciali di prelevo, di cui almeno 100 miliardi dovrebbero essere distribuiti al più presto.

Un passo avanti verso la Global Minimum Tax.
Ma il tema atteso al G20 di Venezia è stato quello sulla Global minimum tax, su cui si è raggiunta l’intesa di configurare sull’aliquota minima al 15% la tassa minima da far pagare alle multinazionali a prescindere da dove realizzano i profitti. Ma è ancora lungo e dovrà superare altri ostacoli il percorso della tassazione internazionale che mira a colpire i grandi profitti delle principali corporations – circa 20 multinazionali del web, della logistica e anche dell’industria farmaceutica – ottenuti grazie alle agevolazioni fiscali di alcuni Paesi, tra cui figurano in particolare l’Irlanda, l’Ungheria e l’Estonia. L’accordo che è stato raggiunto a Venezia dovrà quindi essere perfezionato dai tecnici e definitivamente approvato al vertice conclusivo del G20 ad ottobre. I passaggi più critici saranno soprattutto al Congresso degli Stati Uniti e nell’ambito del processo decisionale dell’Unione Europea, che prevede l’unanimità sulle politiche fiscali e pertanto è prevedibile che per raggiungerla occorrerà negoziare alcune “compensazioni”. In sostanza, si prevede che la Global Minimum Tax, se approvata, non sarà operativa prima del 2023.

La Global Tax secondo Biden.

Joe Biden. (Foto: Facebook).
Per quanto concerne gli Stati Uniti, la battaglia al Congresso sarà dura per vincere le resistenze dei repubblicani sulla tassazione globale. Il presidente Biden l’aveva annunciata nel suo programma di governo e confermata una volta eletto nel “discorso dei 100 giorni”, tenuto nell’aprile scorso. Per sostenere l’ampio programma di investimenti di circa 3500 miliardi di dollari da destinare alle infrastrutture e ai servizi, in favore della middle class più colpita dalla crisi, il leader democratico aveva indicato la necessità di rivedere i criteri di tassazione, per colpire i redditi più alti. “Non imporrò alcun aumento sulle persone che guadagnano meno di 400 mila dollari. È arrivato il momento che le corporations e l’1 per cento dei più ricchi d’America paghino il dovuto”, aveva precisato Biden aveva così fatto riferimento allo slogan dell’1 per cento della sinistra americana, e ad uno studio dell’Institute on Taxation and Economic Policy per cui il 55% delle corporation lo scorso anno avrebbero pagato “zero tasse” su oltre 40 miliardi di utili. “E molte aziende – aveva aggiunto – hanno evaso il fisco attraverso paradisi fiscali, dalla Svizzera alle Bermuda alle Cayman”. Il presidente aveva quindi sottolineato come “la pandemia ha peggiorato la situazione, perché mentre 20 milioni di americani hanno perso il lavoro, i 650 miliardari in America hanno visto la loro ricchezza aumentare di oltre mille miliardi di dollari. È ora di fare qualcosa”. Ma il presidente americano è in difficoltà: da un lato deve ancora insistere per la Global minimum tax al 15%, dall’altro trova la forte opposizione dei repubblicani sull’ ipotesi di raddoppiare l’imposta minima sui profitti off-shore, per portarla dal 10,5 al 21%.

La Global Tax al 15% approvata dal G7 e dall’OCSE.
Anche al G7 di Carbis Bay di metà giugno sorso – per intendersi quello in cui Biden ha lanciato l’idea della “sfida sistemica” contro la Cina – le 7 più grandi economie del mondo, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America, si sono dichiarate d’accordo sulla tassazione globale. Il discorso è stato introdotto a proposito delle scelte comuni sulle politiche espansive, per le quali da un lato si è comunque richiamato il rischio di una crescita incontrollata del debito pubblico, e dall’altro si è posto l’obiettivo di adottare criteri per una maggiore equità nella politica fiscale e nella redistribuzione dei redditi. Sotto quest’ultimo profilo si è quindi pervenuti all’intesa della tassazione al 15% delle rendite dei colossi dell’informatica e della logistica, nell’ottica di recuperare risorse a copertura del debito e per la destinazione agli investimenti.
Dopo l’intesa al G7, il 1 luglio scorso anche l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico ha approvato l’accordo per la tassazione minima globale sulle grandi aziende “di almeno il 15%”, prevedendo l’ultimazione degli adempimenti tecnici entro ottobre 2021 e l’effettiva attuazione nel 2023. L’intesa è stata raggiunta da 131 Stati su 139, con ovviamente l‘ Irlanda, l’Ungheria e l’Estonia tra i contrari. Tra i principali sostenitori della proposta figura certamente la Segretaria al Tesoro statunitense Janet Yellen, già presidente della Federal Reserve, che così ha commentato: “Oggi è un giorno storico per la diplomazia economica”, ed ha aggiunto: “Per decenni, gli Stati Uniti hanno partecipato a una competizione internazionale autolesionista abbassando le imposte sulle aziende, per vedere le altre nazioni rispondere facendo lo stesso. Il risultato è stato una corsa globale verso il basso”. Secondi la Yellen si tratta quindi di un accordo “tra 130 paesi che rappresentano oltre il 90% del pil globale” che da un lato “assicurerà che le società paghino la loro giusta parte” e dall’altro offrirà “la possibilità di costruire un sistema di tassazione nazionale e globale che permetta ai lavoratori e alle aziende americane di competere e vincere nell’economia mondiale”. Altrettanto soddisfatto si è dichiarato il Ministro delle Finanze tedesco, Olaf Scholz, secondo cui l’intesa rappresenta “un passo avanti colossale verso una maggiore giustizia fiscale” e “permetterà di vivere un effettivo, massiccio cambiamento nei prossimi anni e decenni”.

La Global Tax del G20.
Anche a Venezia, dunque, le 20 più grandi economie del mondo, che rappresentano anch’esse circa il 90% del Pil mondiale, sono pervenute all’approvazione della tassazione globale sui grandi profitti, configurandola sull’aliquota minima al 15%. Ancora una volta si è dunque condiviso l’obiettivo di contrastare le rendite ingiustificate delle multinazionali che si stabiliscono nei paradisi fiscali o negli Stati eccessivamente indulgenti nelle politiche fiscali per favorire gli investimenti, a danno però delle altre economie. I ministri delle Finanze e i governatori delle Banche centrali del G20 hanno annunciato di aver raggiunto “un accordo storico per realizzare un’architettura fiscale internazionale più stabile e più equa”.
Il sistema, concepito essenzialmente sulle soluzioni individuate dagli esperti dell’OCSE, si basa in realtà su due “pilastri”: la riallocazione dei profitti delle grandi multinazionali e la vera e propria global minimum corporate tax rate.
La riallocazione dei profitti riguarda le grandi multinazionali, circa un centinaio, non solo quelle del web, che superano i 20 miliardi di euro di profitti all’anno e utili prima delle imposte pari ad almeno il 10% dei ricavi. La tassazione sarà effettuata nei Paesi dove operano le multinazionali su un’aliquota tra il 20 e il 30% dei profitti oltre il margine del 10%. Il prelievo si applicherà se la corporation ottiene almeno un milione di euro di ricavi nel Paese, margine che però per i Paesi con Pil inferiore a 40 miliardi si riduce a 250mila euro. Se la riforma sarà applicata cesseranno le digital web tax in vigore in alcuni Paesi, tra i quali l’Italia (ove tuttavia nel 2020 sono stati riscossi 233 milioni sui previsti 780). Per l’Ocse, la riallocazione dei profitti porterebbe e tassare circa 100 miliardi di dollari di profitto, che annualmente vengono sottratti al prelievo fiscale.
Il secondo pilastro, la global minimum corporate tax rate, riguarda la maggior parte delle multinazionali, quelle che realizzano profitti di almeno 750 milioni all’anno. Nei loro confronti dovrebbe quindi operare una aliquota minima di almeno il 15% nei Paesi in cui le multinazionali operano, prescindendo da dove si trovi la sede legale e superando gli attuali sistemi di elusione, quale ad esempio il ricorso a società con sedi nei paradisi fiscali, che trasferiscono in realtà gli utili alla società controllante. In base ai dati dell’Ocse l’aliquota minima del 15% potrebbe consentire un surplus annuo di 150 miliardi di dollari.
Ma alcuni Paesi temono che le misure non siano sufficienti. Ad esempio, la Francia vorrebbe che le quote degli utili da riallocare siano del 25%. “Il 20% non sembra abbastanza, il 30% potrebbe essere troppo” ha detto il per il ministro Bruno Le Maire, precisando che sull’aliquota minima globale “la Francia con alcuni partner rilevanti del G20 punta a più del 15%”.
La scelta dalla tassa globale non piacerà, oltre che alle potenti lobbies legate alle piattaforme, ai paesi che hanno finora respinto l’intesa, per ragioni che al loro interno hanno una certa rilevanza.
Ad esempio, l’Irlanda ha fatto del suo regime fiscale un vantaggio competitivo da sempre, riuscendo così – dai tempi della strategia del cd. “Double Irish”, o “doppio irlandese”, perché implicava la creazione di due società di diritto irlandese – ad attirare aziende, posti di lavoro e capitale: sono quasi 180mila le persone che lavorano per aziende statunitensi che hanno sede in Irlanda, e solo 10 aziende, tra cui figurano Apple e Intel, hanno corrisposto circa 7,2 miliardi di dollari in tasse societarie nel 2020, una cifra che corrisponde a quasi alla metà delle entrate fiscali delle aziende irlandesi. D’altro canto va ricordato che l’Irlanda oltre alla tassa sui profitti del 12,5%, concede un’aliquota dimezzata del 6,25% alle imprese che traggono profitto da brevetti e software, l’aliquota che di fatto si applica alla maggior parte delle società operanti su internet in tutta Europa, come per esempio Google e Facebook.

Le conclusioni: appuntamento al G20 di ottobre.
Il quadro dei paesi contrari in Europa rimane dunque il solito: sebbene con sfumature diverse rimangono le riserve di Irlanda, Ungheria ed Estonia. Tuttavia va detto che l’Irlanda potrebbe rivedere le sue posizioni in cambio del supporto dell’Unione Europea e degli Stati Uniti sulle note trattative sulla Brexit in corso con il Regno Unito.
Quanto all’Ungheria, è noto che il discusso primo ministro Viktor Orbán ha fatto anche lui della politica fiscale permissiva il perno degli incentivi alla delocalizzazione in Ungheria. E sebbene all’esterno risulti tra i principali attori della regressione dei diritti civili in Europa, al proprio interno continua a consolidare consensi, circostanza che potrebbe indurlo a rimanere fermo sulle sue posizioni.
C’è poi il caso dell’Estonia. Qui si applicano aliquote dal 14 al 20 per cento, ma solo sui profitti distribuiti, mentre non vengono tassati quelli reinvestiti. Si determina così una sorta di pagamento post-posto delle tasse che oggi porrebbe un problema di applicazione del previso accordo, con il quale l’Estonia rischierebbe di vedere altri paesi raccogliere i profitti che il governo di Tallinn non avrebbe tassato al momento della generazione.
All’accordo OCSE non hanno aderito anche i paradisi fiscali come le Barbados, Saint Vincent e Grenadine, e Sri Lanka, Nigeria e Kenya, e Perù, che in atto è senza un governo. Si tratta di Paesi che evidentemente pensano di poter contare sul guadagno più diretto e immediato di attirare le grandi multinazionali grazie al loro regime di tassazione più favorevole.
Gli interessi degli altri Paesi, e in Europa in particolare di Italia, Francia e Germania, sono invece all’opposto: grazie alla global minimum tax potrebbero recuperare le miliardarie elusioni delle multinazionali per destinarle a copertura del debito pubblico, su cui dovrà assicurarsi un rigoroso controllo al fine di non disperdere gli effetti positivi dell’attuale fase di politica espansiva.
Per la Global minimum tax, dunque, ci sarà ancora un appuntamento a ottobre, alla conclusione del turno di presidenza italiana del G20. Quello che si spera è che da tutti questi buoni propositi si passi davvero ai fatti compiuti. Sarà interessante anche vedere l’approccio e le proposte che verranno dal “Y20 Summit”, il vertice dei giovani del G20, che si terrà a Milano e Bergamo dal 19 al 23 luglio.
Intanto l’Italia incassa un altro punto a favore della sua leadership internazionale nel condurre il non facile dibattito sulle soluzioni per contrastare le “sfide globali”: la direttrice generale del Fondo Monetario Internazionale si è dichiarata “molto colpita dalla performance della presidenza italiana del G20”.

* Membro dell’International Law Association, dell’Associazione Italiana Giuristi Europei e della Associazione Italiana di Sociologia.