Grecia. Coronavirus: migranti e profughi “dimenticati” nei campi di Lesbo e Moria

di C. Alessandro Mauceri

Le condizioni dei campi profughi in cui sono stipate migliaia di persone in Grecia sono ormai un inferno. E in un momento come quello attuale, in cui il rischio di contagi e le conseguenze che possono derivarne sono decisamente maggiori, non è possibile non prendere provvedimenti.
Mentre i governi di tutta Europa sono impegnati nell’adottare misure per fronteggiare l’epidemia del coronavirus, nessuno parla più di rifugiati o di migranti e in particolare dei bambini.
Recentemente alcune ONG che lavorano in Grecia hanno chiesto alle autorità di Atene di fornire un aiuto concreto per i minori non accompagnati, a loro avviso praticamente abbandonati dalle autorità. In una lettera le organizzazioni hanno denunciato una “situazione degli esiliati indicibile: mancanza di alloggio, freddo, umidità, stress, affaticamento, affollamento in tende leggere, espulsione quotidiana dai luoghi della vita, deplorevoli condizioni sanitarie”. Nella lettera firmata tra gli altri anche da IRC, Human Rights Watch e Danish Refugee Council, si sottolinea che molti bambini non verrebbero adeguatamente registrati e protetti e si chiedono dettagli sulle procedure adottate i rifugiati presenti in questi centri dal corona-virus.
Particolarmente grave la situazione a Lesbo e a Moria, da anni ormai porta d’accesso per l’Europa per chi fugge dalla Siria o dall’Afghanistan. Nei mesi scorsi il numero delle persone era diminuito per poi crescere di nuovo a causa della spinta da parte della Turchia. Qui, nei giorni scorsi, le autorità elleniche hanno diffuso la notizia di un “bambino morto tra le fiamme” divampate in uno dei container in cui sono ospitati i profughi nel campo profughi di Moria. Ancora incerte le cause dell’incendio e poche le notizie dettagliate.
Non è la prima volta che divampano incendi in questi centri di “accoglienza”. A denunciarlo Stephan Oberreit, capo missione di Medici Senza Frontiere in Grecia: “Questo incendio arriva solo due mesi dopo l’incendio nel campo di Kara Tepe e solo cinque mesi dopo l’incendio nel campo di Moria nel settembre 2019”.
Ma gli incendi non sono gli unici problemi nei campi profughi in Grecia: recentemente alcune ONG avevano dovuto ridurre la propria presenza o abbandonare la zona a causa delle violenze rivolte agli operatori umanitari.
La diffusione del coronavirus è solo l’ultima goccia che rischia di far scoppiare la pazienza in questi campi: la settimana scorsa è stato confermato il primo caso di Covid-19 a Lesbo. E l’unica risposta da parte del governo di Atene è stata sospendere gli asili ai rifugiati. Cosa questa che ha reso il clima nei campi profughi incandescente. Il responsabile di una delle ONG presenti a Lesbo, Douglas Herman, ha dichiarato che le foto dei minori presenti nel campo “descrivono una tragedia, come tante altre qui, completamente evitabile”.
Tensioni, sovraffollamento, condizioni umane e igienico sanitarie tremende e, ultima ma non ultima, la pandemia hanno portato l’UNHCR, l’ Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati, a chiedere l’evacuazione di famiglie e malati dal campo di Moria in grado di ospitare non più di 5mila persone ma dove si trovano quasi 20mila tra migranti e rifugiati. E nuovi arrivi si registrano ogni giorno. Quelli che non trovano spazio nell’area ufficiale costruiscono rifugi di fortuna in un uliveto pieno di rifiuti attorno al campo.
Uno degli aspetti più delicati di tutta questa vicenda è che, a differenza degli arrivi in Spagna e in Italia, dove la percentuale di rifugiati tra i migranti, ovvero di aventi diritto all’accoglienza, è molto bassa, in Grecia oltre l’85% degli arrivi dell’anno scorso erano “veri” rifugiati. Famiglie, singoli individui, minori provenienti dalle persecuzioni tuttora in atto in Afghanistan, in Siria, ma anche in Iraq e in Palestina.
Il portavoce dell’UNHCR Andrej Mahecic ha detto che sono “più di 36mila i richiedenti asilo che alloggiano nei centri di accoglienza in cinque isole, originariamente progettate per 5.400 persone”. “Siamo seriamente preoccupati per l’accesso limitato ai servizi sanitari nei centri di accoglienza, aggravato dalle difficili condizioni di vita”, ha aggiunto. “È fondamentale che altre regioni della Grecia intensificheranno la loro solidarietà per contribuire ad alleviare le pressioni ricevendo richiedenti asilo trasferiti e aprendo luoghi di accoglienza”. Al tempo stesso però “È necessario che il governo acceleri l’attuazione dei suoi piani per spostare migliaia di richiedenti asilo dalle isole alla terraferma”.
A novembre dello scorso anno il ministro greco per la protezione dei cittadini, Michalis Chrisochoidis, durante un intervento accorato al Parlamento europeo, pregò i governi dell’Unione di farsi carico se non dei rifugiati o dei migranti, almeno di parte dei minori stranieri non accompagnati giunti in Grecia e che vivono in condizioni terribili in questi centri d’accoglienza. Poco tempo dopo, lo stesso Ministro informò la Commissione per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento europeo che solo un paese aveva risposto all’appello della Grecia.
Pochi giorni fa, quattro mesi dopo la richiesta, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen (che in questi giorni ha dimostrato di avere a cuore la salute dei cittadini europei mostrando in un breve spot come ci si lava le mani!), ha detto di aver parlato con il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis “della situazione dei minori migranti non accompagnati nelle isole greche” e di aver concordato “di mettere in atto un processo per garantire la protezione e l’assistenza di alcune delle persone più vulnerabili d’Europa, i bambini migranti non accompagnati”. “La Commissione Ue – ha continuato la presidente – sta lavorando su tutti i fronti per fornire sostegno alla Grecia e alle persone coinvolte” nelle migrazioni “forzate” dalla Turchia, “ed è in costante contatto con il governo greco”. Parole che ricordano quelle ormai troppe volte sentite. Promesse alle quali sono seguiti pochi fatti e che si sono sciolte come scritte sulla neve anno dopo anno. Lasciando la Grecia sola a farsi carico delle vittime innocenti. Come il bambino morto nei giorni scorsi a Moria. Di lui non importava niente a nessuno. I giornali non si sono preoccupati di chiedere nemmeno il suo nome o da dove era dovuto scappare per una guerra che non aveva visto iniziare, se dall’Afghanistan o dalla Siria o da chissà dove. Paesi dove le guerre non si fermano neanche davanti alla pandemia globale di coronavirus e che, solo in Siria, hanno già causato 384mila morti e 11 milioni di rifugiati (5,5 milioni fuggiti all’estero, gli altri in fuga entro i confini). Di questi, la Turchia ne ha accolto 3,6 milioni, ma solo una piccola parte vive nei campi allestiti con i soldi dell’Unione europea. “Gli altri” ha detto Cartlotta Sami, portavoce dell’Unhcr, “sono quelli che chiamiamo i “rifugiati urbani”, non vivono necessariamente nelle città, ma su tutto in territorio turco”. E “la maggior parte di loro, ossia l’83%, vive al di sotto della soglia di povertà”. Tra di loro “molti bambini non vanno a scuola, il che compromette seriamente il loro futuro e renderà ancora più difficile ricostruire la Siria”.
Nel 2019, l’UNHCR ha chiesto ai paesi “sicuri” di accogliere i rifugiati. Non tutti i 25 milioni di  rifugiati presenti in tutto il mondo (come prevederebbero gli accordi internazionali sottoscritti). Ha chiesto di accoglierne temporaneamente solo 1,2 milioni di rifugiati, i più vulnerabili tra tutti. Nel 2019 la risposta della comunità internazionale a questo appello è stata accogliere solo 55mila di loro. Uomini, ma soprattutto donne e bambini, che hanno solo un sogno: tornare nel proprio paese. Ammesso vivano abbastanza e non debbano morire prima di stenti, di freddo, di corona-virus o bruciati in un campo profughi. Uccisi dall’indifferenza del mondo che finge di non sentire il loro grido assordante.