Il G7 e la “questione cinese”

di C. Alessandro Mauceri

Al G7 di Carbis Bay, in Cornovaglia, tutti i leader presenti si sono affrettati a sostenere le pesanti affermazioni del presidente degli USA Biden contro la Cina. Tutti pronti a tuonare avvertimenti e proclami. Ma davvero la situazione è questa? Per capirlo sono necessari come sempre i numeri.
Tra quelli più infervorati nel sostenere le affermazioni di Biden, il capo del governo italiano, Mario Draghi. Anche lui ha pronunciato parole pesanti verso la Cina. Dimenticando, però, che i rapporti commerciali dell’Italia con questo paese sono più che idilliaci. E sotto molti punti di vista. A cominciare da quello energetico. ENI China, l’appendice in Cina dell’Ente Nazionale Idrocarburi, fa affari d’oro con il passaggio dal carbone al gas naturale: a confermarlo, solo pochi giorni fa, Gianni Di Giovanni, presidente del Cda di ENI China, a un webinar organizzato dalla Camera di commercio italo-cinese e dalla Fondazione Italia-Cina su Europa e Cina. “Di gas – ha dichiarato – ce n’è tanto nel mondo, soprattutto gli americani hanno un surplus di gas molto rilevante. Quando si parla di nemici e nuova guerra fredda, bisogna tenere conto che soprattutto per la questione dell’energia, USA e Cina hanno bisogno l’una dell’altra”. Stando ai numeri, sembra che abbia ragione: ENI China, ha ricordato Di Giovani, sta “già fornendo il gas a moltissime realtà in Cina: Shenzhen, ad esempio, è la nostra perla nel paese, dove siamo sostanzialmente quasi il fornitore unico, ma anche altre realtà nello Shandong, nella parte meridionale della Cina”. Pensare che l’Italia possa decidere, da un giorno all’altro, di rinunciare a questa gallina dalle uova d’oro è utopia pura.
Ma non è solo questo l’unico motivo per cui cessare i rapporti con la Cina sarebbe anacronistico: il numero delle multinazionali e dei marchi internazionali che contano sulla manodopera cinese per i propri prodotti è spaventoso. A cominciare dal settore dell’abbigliamento: secondo una ricerca recente, sono tantissimi i marchi che contano sulla manodopera a basso costo cinese (Abercrombie & Fitch, Adidas, Calvin Klein, Cerruti 1881, Fila, H&M, Lacoste, Nike, The North Face, Polo Ralph Lauren, Puma, Tommy Hilfiger, Zara, Zegna e molti altri). C’è anche chi ha parlato di sfruttamento delle minoranza uiguri per produrre i capi che vengono poi venduti in tutto il mondo, a cominciare dai paesi europei e dagli USA.
Anche il settore automobilistico vede Cina e Occidente legati a filo doppio. Ad Aprile 2020, il Gruppo Renault, uno dei gruppi automobilistici più potenti al mondo, ha presentato la sua nuova strategia per il mercato cinese, basata su due dei suoi pilastri chiave: veicoli elettrici (EV) e veicoli commerciali leggeri (LCV). A confermarne l’importanza, ancora una volta, i numeri: con 860.000 veicoli elettrici venduti nel 2019, la Cina è di gran lunga il più grande mercato di veicoli elettrici al mondo. Un mercato, peraltro, in netta crescita: le stime dei veicoli elettrici prevedono che dovrebbero raggiungere il 25% del mercato cinese entro il 2030.
Anche il mercato delle auto di lusso è in crescita: in termini di auto vendute, per la Ferrari conta di più il mercato cinese che non quello americano. Pensare che marchi come Renault o FCA possano rinunciare a vendere in Cina non è credibile.
In Cina, è in atto un cambiamento radicale che fa sì che la domanda di beni di lusso continui a crescere in modo impressionante. Nel 2015, la classe media cinese rappresentava il 57% dell’economia, nel 2030, si prevede che raggiungerà il 75%. Numeri che dicono che i danni prodotti dalla pandemia su molti mercati occidentali non si sono visti in Cina. Specie per il mercato dei beni di lusso: non ci sarà alcun rallentamento in questo mercato poiché i cinesi abbracciano avidamente nuovi stili di vita e nuove abitudini di consumo. Questo rende il mercato cinese estremamente appetibile per le grandi aziende occidentali: secondo un recente sondaggio, la maggior parte degli acquirenti di lusso favorirà la moda e i gioielli rispetto alla pelletteria o alle borse. Davvero qualcuno pensa che i marchi internazionali possano rinunciare alla Cina, oasi di profitto in un mercato globale in stallo?
Oggi la Cina è il paese che si registrano più miliardari che in qualsiasi altra parte del mondo: 992, più degli Stati Uniti e dell’India messi insieme. Secondo Equité nei prossimi 20 anni saranno 400 milioni i cinesi che avranno i mezzi per acquistare articoli di lusso. Più di tutta la popolazione degli Stati Uniti, che avrà la stabilità finanziaria per acquistare beni di lusso in ogni categoria. Pensare che le aziende che producono beni destinati a questo target (e che finora sono state le uniche a poter competere con la produzione cinese grazie al valore aggiunto legato al marchio) possano rinunciare a questo mercato è più che ridicolo: è utopistico.
In Cina, è molto diffuso il concetto di “Mianzi”, letteralmente “faccia”. Per un cinese è importante “non perdere la faccia” e il proprio onore. In qualsiasi situazione. E a non voler “perdere la faccia”, in Cina, sono prima di tutto i Millenials. Ma questi, secondo un recente sondaggio, rappresentano il 40% degli acquirenti di beni di lusso. Ancora una volta a fare impressione è il numero: centinaia di milioni di giovani consumatori che stanno guidando l’esplosione del mercato in Cina.
In Cina non è solo il mercato del lusso ad interessare le multinazionali occidentali. Anche quello alimentare attira molto. Un dato per tutti: la Cina è il secondo mercato per il gruppo Nestlè, il più grande al mondo del settore alimentare. E, ancora una volta, si tratta di un mercato in crescita: riferendosi alla Cina, l’amministratore delegato della Nestè, Mark Schneider, ha parlato di “progressi considerevoli” e ha detto che la “Greater China” rappresenta l’8% delle vendite mondiali. Davvero qualcuno pensa che un gruppo come questo possa rinunciare ad un mercato come quello cinese?
Impegnati a farsi fotografare sulle spiagge della Cornovaglia, i leader del G7 sembrano aver dimenticato che sono stati loro a permettere alla Cina (e ad altri paesi) di diventare così potenti: come mercato, come fornitori di manodopera e materie prime a basso costo e come centro degli scambi internazionali. Aprire le frontiere ai mercati per favorire l’import export internazionale ha inevitabilmente spostato il centro dell’economia globale verso oriente. Oggi, Canada, Francia, Germania, Giappone, Italia, Regno Unito e Stati Uniti d’America, il Gruppo dei Sette, G7, non sembrano più essere i sette paesi economicamente più potenti. E nemmeno quelli più sviluppati o il cui peso politico, economico e industriale è centrale per lo sviluppo del pianeta. E, forse, nemmeno la Cina. É in atto un cambiamento radicale del quale questi personaggi fingono di non accorgersi.
A comandare oggi sono le imprese multinazionali. La prova? Il PIL combinato di Stati Uniti e Cina ammonta a circa 35,7 trilioni di dollari (2020). A Marzo 2021, il fatturato delle 100 aziende più grandi al mondo si aggirava intorno ai 31,7 trilioni di dollari. E mentre il PIL dei paesi “sviluppati” stenta a riprendersi dal colpo subito durante la pandemia, il fatturato delle multinazionali continua a crescere, anno dopo anno, con una rapidità spaventosa. Ma di questo i leader riuniti sulle spiagge della Cornovaglia, hanno preferito non curarsi.