Il Transarmo

di Maddalena Pezzotti

Il transarmo si incentra nel paradigma di sperimentazione per la trasformazione dei conflitti con strumenti pacifici, teorizzato dal sociologo e matematico norvegese, Johan Galtung. È una strategia di superamento dell’approccio militare al principio di sicurezza e del primato della tutela armata degli stati. Il suo luogo di coordinamento si trova nella rete internazionale Transcend, avviata nel 1993, da Galtung e, al momento, integrata da più di 400 ricercatori, e operatori sul terreno, di circa 60 paesi.
A partire dal 1984, Galtung ha sottolineato l’impellenza di svincolare la sicurezza dal ricorso ad armamenti, in quanto la loro stessa presenza, disponibilità e accessibilità sono irrimediabilmente “percepite come una minaccia […], a causa della loro capacità di distruzione” e finiscono per diventare la ragione stessa dei conflitti. Inoltre, vengono usate per sferrare “colpi preventivi o di rappresaglia”, spesso rivelatisi ingiustificati o sproporzionati.
La proposta consiste nel passaggio progressivo dalla difesa offensiva alla difesa difensiva, ovvero alla difesa non militare, attraverso modalità di minima distruttività, in caso di un attacco a territori o istituzioni che non si è potuto disinnescare con altre soluzioni. Questo tipo di difesa è anche materia delle ricerche italiane di studiosi come Giovanni Salio (1983, 1995, 2001, 2008), Alberto L’Abate (1985, 1990, 2008, 2014), Antonino Drago (1993, 1997, 2006, 2010), Norberto Bobbio (2009, 2013).
Il transarmo pertanto sta fra il riarmo e il disarmo, in opposizione al primo, e transizione verso il secondo. Nelle parole di Galtung, “comporta un mutamento profondo della dottrina di sicurezza militare” e “costituisce l’effettiva premessa per un reale e duraturo disarmo generalizzato, in quanto non si limita a proporre lo smantellamento dei sistemi d’arma, lasciando inalterato il meccanismo che li genera, ma modifica il punto di vista”. Per il filosofo Jean-Marie Muller (1976, 1995), “non si tratta tanto di reclamare il disarmo, quanto di creare le condizioni che lo rendono possibile”.
Il concetto racchiude un progetto. Mira a una difesa civile non violenta che possa sostituirsi alla difesa militare armata. La critica dell’apparato industriale bellico è accompagnata a quella dei fondamenti psichici, morali, ideologici, e religiosi, della cultura di guerra. Il centro del dibattito è la dissoluzione dei legami tra profitto e guerra, e la dismissione sia di economie predatorie che producono conflitti, sia della pratica della violenza per la preservazione di assetti egemonici o l’imposizione di volontà di sopraffazione. In definitiva, per poter disarmare, bisogna approntare modelli diversi per la convivenza umana.
La storia dimostra che c’è un’alternativa alla guerra. Lo stato quacchero della Pennsylvania, fondato da William Penn nel 1681 e durato per 70 anni, rinunciò ad avere un esercito e alla sicurezza statale mediante l’uso della violenza. Penn comparve al cospetto dei capi nativi americani senza alcuna arma, questi deposero le proprie e sorse uno stato di pace, a differenza di tutti gli altri dell’America del Nord. La costituzione annoverava rapporti di amicizia con i nativi, la liberazione degli schiavi, uguaglianza e libertà di religione. In un appello mondiale del 1923, i quaccheri scrivono: “La più urgente delle riforme del nostro tempo è di abolire la guerra, di stabilire, a esclusione di qualsiasi altro mezzo, misure pacifiche per regolare le vertenze […]. Tali mezzi pacifici non potranno riuscire fino a che le nazioni […] non avranno cessato di imparare la guerra”.
La difesa non violenta è stata applicata in India, da Gandhi, contro il colonialismo inglese; in Danimarca, contro il nazismo e l’antisemitismo; negli Stati Uniti, da Martin Luther King, contro la discriminazione razziale; in Sudafrica, da Mandela, contro l’apartheid; in Cile, contro la dittatura di Pinochet; in Polonia, contro il regime di Jaruzelski. Il movimento della cultura della pace, ispirato da Bertha von Suttner, premio Nobel per la pace nel 1905, il primo conferito a una donna, e dal manifesto Einstein-Russell del 1955 per il disarmo nucleare, sorge dal basso all’interno delle società, mentre cancellerie e diplomazie si muovono nell’ambiguità della necessità della guerra.
L’arma è di natura morale, corrispondente a una forza costruttiva. Si è tradotta nella capacità di togliere base a poteri ingiusti (non collaborazione), e rendere il dominio più costoso della mediazione (costrizione non violenta o dissuasione non minacciosa). Vi è intrinseco il pensiero che la vera forza è quella che resiste, e non quella che viola l’integrità fisica, psicologica, culturale, della persona, e ne limita l’espressione e la partecipazione politica, sociale ed economica.
In questa dimensione etica, non solo resistere è più forte che aggredire, ma la difesa offensiva è disumana. Il diffuso impiego di armi di medio danno – per il nemico sono più costosi i feriti che i morti –, e dello stupro di guerra, denunciano l’idea del corpo umano come terreno di scontro. Gli obiettivi non sono solo infrastrutture o postazioni belliche, bensì l’umiliazione e l’annientamento del popolo antagonista. Il socio-psicologo Eugen Drewermann (2005) sottolinea in molte pagine “la deformazione dell’umano” determinata dalla stessa esistenza del sistema militare.
Al contrario, la pace è un dovere. Lao-tzu (VI-V secolo a.C.), padre del taoismo, si esprime così sulla vacuità della guerra e la vittoria: “Le armi sono mezzi nefasti di cui un principe saggio si serve solo […] controvoglia, perché preferisce una pace modesta a una gloriosa vittoria. Non bisogna giudicare che una vittoria sia un bene. Chi lo facesse, mostrerebbe d’aver cuore d’assassino. Che un simile uomo regni sull’impero non sarebbe opportuno”.
La difesa non violenta propone una reciprocità positiva, in cui si attribuisce uguale valore a sé stessi e all’altro, con l’impegno di non aggiungere violenza nel mondo. Raimond Panikkar scrive (1990) che compito della filosofia è “disarmare la ragione umana”, affinché ci si impegni all’ascolto e al dialogo, superando l’arroganza di possedere interpretazioni o risposte definitive. Nel linguaggio dell’imperativo categorico di Kant, bisogna considerare “la persona umana sempre come un fine, mai solo come un mezzo”.
Come per gli eserciti, la difesa non armata non è frutto di improvvisazione. Va preparata e organizzata in maniera preventiva e forma adeguata. In tutto il mondo, i movimenti non violenti lavorano, quindi, all’obiettivo di diminuire la capacità distruttiva della preparazione alla guerra e aumentare la capacità costruttiva della difesa non violenta.
Il transarmo inquadra, innanzitutto, la riduzione del finanziamento all’industria bellica a vantaggio di investimenti nell’approntamento di una difesa non militare e nel rafforzamento delle istituzioni democratiche. Il fine della pace, perseguito tramite la violenza, è una contraddizione di termini. Non ci sono “guerre giuste”. Il trauma inferto, nel proposito dell’annientamento dell’avversario, non è mai la premessa per una pace solida e duratura.
Per i sostenitori di questa visione, la dottrina della deterrenza è un falso mito cha va smascherato e sfidato, considerato che è illusorio, e pericoloso, basare la pace sull’equilibrio degli armamenti. La sola produzione, in special modo quella nucleare, va considerata un crimine contro l’umanità. Il disarmo deve essere integrale, simultaneo e reciproco; ogni atto di guerra che mira a distruzione vasta e indiscriminata dovrebbe essere un delitto condannato con fermezza.
La guerra non è un veicolo adatto a risarcire il diritto violato, dunque, occorre interdirne qualsiasi ricorso, e dar vita a un’efficace autorità pubblica universale per l’integrazione politica delle nazioni, che potrebbe coincidere con un’Onu rinnovata. Viene postulata una filosofia della pace che prenda le mosse da una nuova razionalità intorno alle nozioni di legittima difesa, sovranità e nazione, e dal rispetto del diritto internazionale.