In Afghanistan continua la guerra degli USA e dei suoi servi ai talebani. E intanto la Cina fa l’asso piglia tutto.

di Enrico Oliari

Membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la Cina ha sempre sostenuto gli interventi militari in Afghanistan conseguenti agli attacchi dell’11 settembre 2001, partecipando attivamente ed inviando, tra l’altro, un insolito contingente fatto di ingegneri, tecnici e lavoratori.
L’amore disinteressato del presidente Hu Jintao per il popolo afghano si è concretizzato nella costruzione di scuole, di acquedotti e di ospedali e, come ha voluto precisare il 6 marzo scorso il ministro cinese Yang Jiechi, “la Cina sostiene, con aiuti senza condizioni, Kabul nel riportare la pace nel Paese, ma non si impegnerà sul terreno militare”.
Un’azione del tutto umanitaria e volta a creare un mondo migliore? Sembrerebbe di sì, stando ai propositi di pace dichiarati dal governo di Pechino nel settembre scorso, immediatamente dopo la richiesta urgente di truppe fatta dal generale McChrystal al Segretario per la Difesa Gates: in un articolo apparso sul China Daily del 29 settembre 2009 si poteva leggere della proposta cinese per porre fine all’intervento militare in Afghanistan, la cosiddetta “Exit strategy”. Si trattava di un’iniziativa improntata tutta su un “approccio pacifico e riconciliatore” dove, in sostanza, veniva chiesto agli USA e ai suoi accoliti il disimpegno dal paese e la creazione di una forza di pace e di sicurezza ben invisa al governo di Hamid Karzai. Cinese, se possibile.
La soluzione lanciata da Pechino era rimasta per lo più ignorata non tanto per il consolidato interesse USA nel mantenere viva la guerra in Afghanistan, quanto più per il fatto che ai buoni propositi del vicino a oriente (l’Afghanistan confina attraverso il corridoio del Vacan con la Cina) non ci credeva nessuno.
E difatti sono bastati pochi mesi per smentire la genuinità dei buoni propositi del Dragone, tanto che sono già una quarantina i grandi progetti su concessione che vedono coinvolte aziende cinesi in Afghanistan.
Fra questi il più interessante è quello che vede impiegata la China Metallurgical Corporation per l’estrazione del rame dal più grande giacimento del mondo ad Aynak, a qualche decina di chilometri a sud-est di Kabul, scoperto dai sovietici nel 1974 e con una riserva del prezioso metallo stimata in 690 milioni di tonnellate di materiale grezzo, ovvero 11,33 milioni di tonnellate di rame raffinato.
Il contratto stilato dal governo fantoccio di Karzai prevede un controvalore di 3.5 miliardi di dollari e, oltre alla China Metallurgical Corporation, interessa altri colossi cinesi del settore quali la Jiangxi Copper Corporation e la Zijn Mining Group Company.
Il trasporto del rame verso la Cina verrà assicurato dalla costruzione di un’imponente ferrovia che collegherà i due paesi attraverso il Pakistan, stato che, guarda caso, è in strette relazioni con gli stessi Stati Uniti che hanno ottenuto il via libera dalla Cina per l’intervento militare in Afghanistan.
Oltre alla rete ferroviaria la China Metallurgical Corporation ha iniziato la costruzione di una centrale elettrica di 400 Mw di potenza alimentata dal carbone estratto da una miniera scavata nei dintorni dalla stessa azienda cinese.
Come da consuetudine le multinazionali cinesi hanno portato la loro manodopera da casa, cosa che ha fatto infuriare la popolazione afgana locale ed ancor più le milizie talebane (Aynak si trova nella valle di Jalrez, che è presidio talebano), le quali hanno dato il via ad attacchi sia verso i militari cinesi che gli stessi lavoratori. Non va inoltre tralasciato l’alto rischio di inquinamento della falda acquifera sottostante la zona, la quale fornisce acqua potabile a diverse decine di migliaia di persone. (2 apr 10)