di C. Alessandro Mauceri –
Ormai la guerra israelo-paestinese si combatte su più fronti. La sentenza della Corte di Giustizia Internazionale che aveva imposto a Israele di sospendere la strage dei civili in attesa del verdetto definitivo sull’accusa di genocidio non è servita a fermare i bombardamenti israeliani. Negli ultimi giorni Israele ha spinto i palestinesi in fuga verso Rafah, al sud del territorio. Ora sembra voglia “trasferirli” in una tendopoli immensa, si tratta di oltre un milione di persone, lungo la spiaggia.
Ma Israele sta combattendo anche su un altro fronte: quello per conservare l’appoggio, anche mediatico, dei Paesi occidentali. Durissima l’accusa all’UNRWA di avere al proprio interno persone che collaborano con i terroristi di Hamas: l’agenzia delle Nazioni Unite, presente in Palestina dal 1949, venne istituita con la Risoluzione 302 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite per fornire assistenza diretta ai palestinesi fatti fuggire dalle proprie terre e dalle proprie case.
L’accusa è inserita in un rapporto stringato, di sole cinque pagine, inviato però non alle Nazioni Unite e nemmeno al capo di UNRWA Philippe Lazzarini, bensì ai governi di alcuni Paesi “amici”, tra cui Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Italia e Germania. I quali immediatamente ne hanno diffuso la notizia su alcuni quotidiani nazionali e su media tra cui Channel 4 News, uno dei pochi che ha avuto il privilegio di leggere il documento. Fonti tuttavia riportano che il rapporto “non fornisce alcuna prova alla sua nuova ed esplosiva affermazione secondo cui il personale dell’UNRWA sia coinvolto negli attacchi terroristici contro Israele”.
Nel documento/denuncia diffuso da Israele si parla di 12 membri dell’UNRWA che avrebbero preso parte direttamente o indirettamente all’attacco di Hamas del 7 ottobre, una notizia poi ridimensionata dall’intelligence secondo cui sarebbero solo sei i membri del personale, quattro dei quali coinvolti nel rapimento di israeliani e uno avrebbe fornito “supporto logistico”. Sei dipendenti su un totale di quasi 30mila collaboratori dell’UNRWA, dei quali circa 300 sono funzionari internazionali. Gli altri, ovvero la maggior parte, sono palestinesi, spesso profughi.
Naturalmente nel documento ci si guarda bene dal dire che da ottobre 2023 sono 154 i dipendenti dell’UNRWA uccisi dai bombardamenti sulla Striscia di Gaza. Non si parla nemmeno delle 150 sedi dell’UNRWA distrutte dai bombardamenti. Né delle centinaia di scuole e ospedali bombardati, come emerge da diversi rapporti delle Nazioni Unite e non solo di UNRWA, in violazione degli accordi internazionali sottoscritti da Israele e diventati carta straccia. In realtà le Nazioni Unite sono forse l’unica organizzazione che ha avuto la possibilità di portare aiuto ai palestinesi bombardati e sfollati: le persone aiutate dall’UNRWA nella Striscia di Gaza sono oltre 1,7 milioni.
Per Israele ora si avvicina il momento dello scontro finale, e l’UNRWA, che è presente in questo territorio da oltre mezzo secolo per aiutare i palestinesi, diventa “scomoda”. Da qui gli attacchi anche mediatici e la politica per screditarne l’operato (sei operatori su trentamila!). Un colpo che ha già prodotto frutti: alcuni dei Paesi, tra cui l’Italia, che hanno ricevuto copia del rapporto di Israele hanno immediatamente chiuso i cordoni della borsa e hanno sospeso l’invio di fondi all’UNRWA. Altri governi, tra cui quello spagnolo, hanno invece aumentato gli aiuti, cosa che di fatto ha portato a una spaccatura tra i Paesi occidentali. Nei giorni scorsi la Corte d’appello olandese ha stabilito che il governo dei Paesi Bassi deve fermare le spedizioni di componenti per gli aerei da combattimento F-35 al governo israeliano proprio a causa del perdurare degli attacchi a Gaza. Una decisione arrivata nel momento in cui il primo ministro Mark Rutte era in missione in Israele. Sul fronte politico molti hanno criticato Rutte accusandolo di essere troppo tenero nei confronti di Israele, si dice per aumentare le proprie possibilità di succedere a Stoltenberg come segretario generale della NATO. Secondo la Corte d’appello olandese “Esiste il rischio evidente che gli aerei da combattimento F-35 vengano utilizzati da Israele per commettere gravi violazioni del diritto umanitario nella Striscia di Gaza”.
In questo quadro complesso dal punto di vista geopolitico si inserisce un altro aspetto importante: l’8 febbraio scorso alcuni gruppi palestinesi per i diritti umani tra i quali al-Mezan Center for Human Rights, al-Haq, Palestinian Centre for Human Rights e Adalah, hanno denunciato la concessione da parte del governo israeliano di “licenze di esplorazione del gas al largo delle coste di Gaza”. Concessione avvenuta a fine ottobre 2023. In quell’occasione il ministro dell’Energia e delle Infrastrutture di Israele Israel Katz, e il commissario per il petrolio del ministero dell’Energia e delle Infrastrutture israeliano avevano annunciato i risultati di due gare per l’esplorazione di gas naturale nella zona economica esclusiva (ZEE) di Israele. Nella Zona G sei licenze erano state assegnate a ENI, Dana Petroleum e Ratio Energies. Si era parlato di “una nuova fase per garantire il futuro fabbisogno energetico di Israele, e siamo fiduciosi che, combinando le tecnologie esistenti ed emergenti, saremo in grado di produrre questa energia massimizzando le entrate per il popolo di Israele e minimizzando l’impatto ambientale”. Le licenze ricadono in un’area marittima situata in gran parte lungo le coste di Gaza. Il 62% della Zona G rientrerebbe nei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019, in conformità con le disposizioni dell’United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS) del 1982. Otre alle licenze assegnate nella Zona G, Israele ha emesso gare anche per le Zone H ed E. Ebbene, il 73% della Zona H rientra nei confini marittimi dichiarati della Palestina e così il 5% della Zona E.
A chi ha fatto notare che questi territori non sarebbero di Israele, le autorità hanno risposto che, dato che il loro Paese non riconosce la Palestina come stato sovrano, non riconosce nemmeno la sua autorità di dichiarare i propri confini marittimi e le proprie acquedi competenza.
Secondo le associazioni che hanno denunciato l’accaduto, “L’emissione della gara e la successiva concessione di licenze per l’esplorazione in quest’area costituisce una violazione del diritto internazionale umanitario (DIU) e del diritto internazionale consuetudinario. Le gare d’appalto, emesse in conformità con il diritto interno israeliano, equivalgono in realtà all’annessione de facto e de jure delle aree marittime palestinesi rivendicate dalla Palestina. Secondo il diritto internazionale applicabile, a Israele è vietato sfruttare le risorse limitate non rinnovabili del territorio occupato, per guadagni commerciali e a beneficio della potenza occupante, secondo le regole dell’usufrutto, come previsto dall’articolo 55 dei Regolamenti dell’Aja”.
Il 5 febbraio 2024 una di queste associazioni, Adalah, ha inviato una lettera al ministro dell’Energia israeliano e al procuratore generale di Israele chiedendo: “la revoca delle licenze per l’esplorazione del gas concesse nella Zona G; l’annullamento di eventuali gare pendenti nelle aree che rientrano nei confini marittimi della Palestina; l’immediata cessazione di qualsiasi attività che comporti lo sfruttamento delle risorse di gas nei confini marittimi della Palestina, poiché queste aree non appartengono allo Stato di Israele e Israele non possiede alcun diritto sovrano su di esse, compresi i diritti economici esclusivi. Inoltre l’esplorazione e lo sfruttamento del gas nelle aree marittime della Palestina violano palesemente il diritto fondamentale del popolo palestinese all’autodeterminazione, che comprende la gestione delle sue risorse naturali”.
Il 6 febbraio lo studio legale Foley Hoag LLP, che rappresenta al-Haq, al-Mezan e PCHR, ha inviato ad alcune delle società petrolifere aggiudicatrici (tra cui ENI SpA, Dana Petroleum Limited e Ratio Petroleum) una nota nella quale si intimava loro di “Desistere dall’intraprendere qualsiasi attività nelle aree della Zona G che ricadono nelle aree marittime dello Stato di Palestina”, dal momento che “Tali attività costituirebbero una flagrante violazione del diritto internazionale”. In questo documento le organizzazioni affermano che “qualsiasi tentativo di esplorare e sfruttare le risorse naturali rivendicate dallo Stato di Palestina senza il suo consenso violerebbe inevitabilmente il diritto internazionale umanitario, comprese le leggi sull’occupazione”. Peggio: “La complicità in crimini di guerra come il saccheggio è un reato grave, che espone gli attori delle corporations a responsabilità penale individuale”. Specie considerando che in questo momento la Corte penale Internazionale starebbe conducendo “un’indagine sui crimini commessi nel territorio dello Stato palestinese, e quindi ha giurisdizione per indagare e perseguire qualsiasi individuo ritenuto responsabile della commissione del crimine di guerra del saccheggio”. Per le associazioni partecipare alla gara ed effettuare esplorazioni di gas nelle aree marittime della Palestina, in violazione del diritto internazionale umanitario, espone le compagnie al rischio di azioni civili per danni”.
Purtroppo alcune di queste compagnie hanno una forte compartecipazione statale. Questo significa che il loro comportamento non dovrebbe essere dettato solo da motivi economici. D’altro canto che i governi interessati non possono non tenere conto di altri aspetti, oltre a quelli strettamente economici. Una situazione che, secondo il co-portavoce di Europa Verde e deputato di Avs, “non può che riempirci di vergogna”.
L’ennesima conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che l’aggressione israeliana e la strage di decine di migliaia di donne e bambini non è solo frutto di quanto è avvenuto il 7 ottobre. È questo l’altro fronte del conflitto israelo-palestinese: accaparrarsi il controllo di un territorio e le sue riserve di gas e materie prime.