Khojaly: replica dell’Ambasciata dell’Armenia

Egregio Direttore,

khojaly 2vorremmo chiarire alcuni aspetti assai rilevanti dell’articolo di Giuliano Bifolchi pubblicato su questo sito il 13 febbraio 2014 dal titolo “A Roma si parla del “massacro” di Khojaly”.
Prima di tutto è doveroso liberare il campo da qualsiasi fraintendimento, esprimendo il nostro cordoglio per le vittime civili del conflitto in Nagorno-Karabakh che ha causato la morte di 35.000 armeni e azeri nel quasi totale silenzio internazionale.
E poi ci domandiamo se sia stata la faziosità o la ignoranza sull’argomento, entrambe imbarazzanti, ad averne determinato i contenuti.
Ovviamente sta al lettore giudicare l’attendibilità delle informazioni di un regime che al momento è al 160° posto su 180 per la libertà di espressione secondo Reporters sans Frontieres e al 139° posto su 167 per democrazia e libertà politiche secondo l’Economist Intelligence Unit.
Vorremmo ricordare inoltre che il Presidente azero, dopo avere ereditato il potere dal padre e dopo essersi aggiudicato, pochi mesi fa, il terzo mandato presidenziale consecutivo con l’85% dei voti, nel 2012 è stato nominato “Uomo dell’anno per la corruzione” dall’OCCRP (1).
L’articolo fa riferimento al convegno del 12 febbraio 2014 “La protezione della popolazione civile nei conflitti armati: il caso di Khojaly” organizzato dal Comitato Italiano Helsinki e dalla Lidu.
È qui già riscontriamo la prima anomalia: il Comitato Italiano Helsinki, a eccezione degli altri comitati nazionali che in giro per il mondo denunciano la natura autoritaria e repressiva del regime azero, si presta come cassa di risonanza della propaganda dello stesso regime.
Innanzitutto vogliamo ricordare che la contesa alla base del conflitto è stato, per tutta la dominazione sovietica, il negato esercizio del diritto all’autodeterminazione della popolazione armena del Nagorno-Karabakh dall’Azerbaijan, a quei tempi Repubblica Socialista Sovietica.
Si trattava, allora come oggi, di ribellione a un sopruso che nel 1921, su iniziativa di Iosif Stalin, annetteva la regione, storicamente armena e a maggioranza armena, come enclave all’Azerbaijan con tutte le conseguenze in termini di discriminazioni di Baku nei confronti degli armeni nel Nagorno-Karabakh (da Treccani Vocabolario on line: enclave, nel linguaggio internazionale -e in questo senso anche nell’uso ital.- territorio non molto esteso che sia completamente circondato da territorio appartenente a uno stato diverso da quello che ha la sovranità su di esso).
Alla fine degli anni ottanta del secolo scorso, incoraggiati dalla relativa libertà di espressione introdotta da glasnost e perestrojka in Unione Sovietica, gli armeni del Nagorno-Karabakh ribadirono il loro diritto all’autodeterminazione (si veda la Carta della Nazioni Unite) con un referendum secondo le modalità sancite dalle leggi vigenti e dalla costituzione dell’Urss.
La risposta fu una pulizia etnica contro i villaggi armeni del Nagorno-Karabakh e pogrom contro i circa 450.000 armeni residenti nelle maggiori città azere, capitale Baku inclusa, e oggi completamente svuotate della popolazione armena.
Il 2 settembre 1991, le autorità del Nagorno-Karabakh, esercitando i propri diritti sanciti dalla costituzione allora vigente dell’Unione Sovietica, dichiararono l’indipendenza dall’Azerbaijan.
A tale decisione seguì una vera e propria invasione militare da parte dell’Azerbaijan contro il Nagorno-Karabakh. Per più di un anno la popolazione civile di Stepanakert, la capitale del Nagorno-Karabakh, fu sotto il fuoco diretto di missili Grad e sottoposta a bombardamenti con bombe a grappolo dall’aviazione azera.
Il ruolo dell’Armenia nella fase armata del conflitto, in mancanza di forze internazionali di interposizione, era quello di protezione dei civili nonché di assistenza umanitaria, economica e diplomatica; invece, nelle operazioni militari erano coinvolte le forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh.
E qui ci preme ricordare che l’attribuzione della responsabilità dell’ “uccisione di civili azeri da parte delle truppe armene” è stata ormai superata, sulla base di prove fattuali, da una moltitudine di fonti azere e da quei pochi giornalisti occidentali attivi in Caucaso agli inizi degli anni novanta.
È ampiamente noto agli esperti del conflitto che il comune di Khojaly era un avamposto dei lanciarazzi Grad delle forze armate azere che avevano come obiettivo la popolazione civile armena.
Alcuni giorni prima del 25 febbraio 1992, il comando delle forze armene di autodifesa del Nagorno-Karabakh cominciò a informare via radio le autorità militari e la popolazione civile azere sull’imminenza di una azione militare armena tesa a neutralizzare i lanciarazzi azeri posti all’interno di Khojaly e sulla presenza di un corridoio umanitario per l’evacuazione dei civili.
Come riportato da fonti azere (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 31), Salman Abbasov, un abitante di Khojaly, dice: ”Alcuni giorni prima della tragedia, gli armeni hanno ripetutamente annunciato via radio che sarebbero avanzati nella nostra direzione e ci chiedevano di lasciare la città (…). Infine quando fu possibile evacuare donne, bambini e anziani, loro, gli azeri, ce lo vietarono”.
Nella stessa fonte (Khojaly: chronicle of genocide, Baku, 1993, pag. 16), Elman Mamedov, all’epoca sindaco di Khojaly, dichiara: ”Alle 20.30 del 25 febbraio fummo informati che i mezzi militari armeni erano in posizione di combattimento nelle vicinanze della città. Informammo tutti via radio. Io chiesi elicotteri per evacuare anziani, donne e bambini. L’aiuto non arrivò mai…”.
Illuminante è anche la testimonianza di Ramiz Fataliev, Presidente della Commissione di indagine sugli eventi di Khojaly (fonte): “Quattro giorni prima degli eventi di Khojaly: il 22 febbraio, alla presenza del Presidente, del Primo Ministro, del capo del KGB e di altri, ebbe luogo una sessione del Consiglio di sicurezza nazionale (dell’Azerbaijan) durante la quale venne presa la decisione di non evacuare i civili da Khojaly”.
Da questa dichiarazione risulta più che evidente l’utilizzo criminale dei civili azeri come scudo per i lanciarazzi da parte delle stesse autorità azere. Si parla insomma della cosiddetta shield policy che, ci preme ricordare all’autore, è una netta violazione del diritto umanitario internazionale (Protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali – Protocollo Aggiuntivo (I), Ginevra, 8 giugno 1977 – Art. 51).
Inoltre, nella sua intervista alla Nezavisimaya Gazeta del 2 aprile 1992, il deposto Presidente azero Mutalibov affermò: “Gli armeni avevano lasciato un corridoio per la fuga dei civili. Quindi perché avrebbero dovuto aprire il fuoco? Specialmente nell’area intorno ad Agdam, dove, all’epoca c’erano abbastanza forze (azere) per aiutare i civili”. Nei dintorni di Agdam (a molti chilometri di distanza dal teatro delle operazioni) erano dislocate le formazioni paramilitari del Fronte Popolare Azero. Sempre Mutalibov, in un’intervista alla rivista “Novoye Vremia” del 6 marzo 2001 ribadisce: “Era ovvio che qualcuno aveva organizzato il massacro per cambiare il potere in Azerbaijan”, alludendo così al Fronte Popolare Azero le cui truppe erano di stanza nei pressi di Khojaly, quelle stesse truppe che, alcuni giorni dopo i fatti di Khojaly, organizzarono il golpe a Baku. E dichiarazioni e valutazioni di questo tipo sugli eventi di Khojaly sono state fatte da diverse personalità azere e da giornalisti.
A tal proposito facciamo presente all’autore che i giornalisti azeri e gli attivisti per i diritti umani che hanno contestato la versione del governo azero sui fatti di Khojaly sono stati arrestati o uccisi. Per dovere di cronaca ecco alcuni nomi: Chingiz Mustafayev cameraman, ucciso in circostanze misteriose, Eynulla Fatullayev giornalista, condannato con diversi capi d’accusa, tra cui alto tradimento, per il suo reportage su Khojaly, Elmar Huseynov giornalista, morto in circostanze poco chiare.
Tutto ciò rende le responsabilità criminali azere ancora più evidenti.
Vorremmo inoltre sottolineare che la citazione dall’intervista di Thomas De Waal al Presidente Serzh Sargsyan, all’epoca dei fatti di Khojaly Ministro della Difesa, è decisamente manipolata perché estrapolata dal suo contesto originale. Infatti, nella stessa intervista del 15 dicembre 2000, al paragrafo precedente (che non viene riportato da Notizie Geopolitiche) le parole del Presidente Sargsyan assumono un significato del tutto diverso: “It is too much exaggerated, too much. Azerbaijanis needed to have a case tantamount to Sumgait. But you can’t compare these two cases. Yes, in reality there was a civilian population in Khojaly. But together with civilians there were also soldiers. And when a shell/missile flies through the air it does not distinguish between civilian and soldier, it has no eyes. If the civilian population remains behind despite the fact that there was a good opportunity to leave, then it means that the population is also involved in hostilities (azeri shield policy). And the corridor was left for civilian population not for the purpose to shoot them somewhere, shooting was possible in Khojaly, and not on the outskirts of Agdam”.
In conclusione vorremmo far presente che secondo i dati SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) negli ultimi sette anni la spesa militare azera è aumentata del 2.500 %, dati questi comparabili con il riarmo della Germania nazista negli anni trenta. Tale circostanza, combinata con frequenti violazioni dell’accordo di tregua firmato nel 1994, con dichiarazioni palesemente guerrafondaie dalle più alte istanze dello Stato azero, dagli ambasciatori al Presidente, e con una campagna armenofoba nelle scuole azere promossa dallo Stato, è certamente l’ostacolo maggiore per il successo del negoziato mediato dal Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia).
L’Azerbaijan inoltre si rifiuta, contrariamente all’Armenia e al Nagorno-Karabakh, di negoziare direttamente con il governo democraticamente eletto del Nagorno-Karabakh e rimanda al mittente le proposte OSCE sul ritiro dei cecchini dalla linea di contatto e sulla messa a punto di un meccanismo congiunto per indagini sulle violazioni del regime di tregua.
L’Armenia invece è determinata, a differenza del governo azero, ad arrivare a una soluzione negoziata del conflitto, soluzione che escluda alla base l’utilizzo dello strumento militare per la composizione finale. Posizione questa condivisa dalla comunità internazionale e richiesta alle parti in conflitto.
La posizione del governo armeno è allineata con le dichiarazioni dei capi di stato dei paesi co-presidenti del Gruppo di Minsk (Usa, Russia e Francia) adottate ai vertici G8 dell’Aquila, Muskoka, Deauville, Enniskillen e del G20 di Los Cabos nell’accettare come base negoziale i principi di Madrid che richiedono compromessi alle parti ma sintetizzano anche le aspirazioni e le aspettative della popolazione civile armena e azera.
Forse dopo tante distruzioni e vittime civili di una guerra imposta dall’Azerbaijan, il governo azero farebbe meglio a impegnarsi seriamente nel processo di pace mediato dall’OSCE e supportato dalla comunità internazionale, senza accusare i mediatori di “insuccessi” e di “una situazione di immobilità” ma mettendo fine alla campagna armenofoba di questi ultimi anni e preparando allo stesso tempo la propria opinione pubblica alla pace e non allo scontro perpetuo.
La pace la fanno i leader dotati di coraggio politico.

Ambasciata della Repubblica d’Armenia in Italia

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Note:
1. Organized Crime and Corruption Reporting Project