La Cina, dalla rivolta di Tienanmen alle proteste a Hong Kong

di C. Alessandro Mauceri

Sono trascorsi 13 anni dalla rivolta degli studenti cinesi culminate negli scontri di piazza Tienanmen. Le proteste degli studenti, iniziate il 15 aprile, erano ad una fase di stallo, tra la decisione del governo di usare le maniere forti e l’incapacità di buona parte della popolazione cinese di comprendere le motivazioni della rivolta condotta da giovani e studenti ormai stanchi e sfiduciati. Il 4 giugno avvenne qualcosa che rimarrà per sempre nella memoria di chi, direttamente o indirettamente, ha vissuto quei momenti: un ragazzo con in mano i sacchetti della spesa si mise davanti ad un carro armato. Rimase in piedi, fermo, deciso, come se la sua forza di volontà bastasse a fermare la colonna di mezzi blindati che aveva di fronte. Gli stessi che la notte prima avevano attaccato i rivoltosi dopo che il presidente Li Peng aveva dichiarato la legge marziale e ordinato lo sgombero della piazza. Fu un momento storico. Non tanto per il gesto eroico ormai passato alla storia grazie alle fotografie finite su tutti i giornalisti occidentali presenti. Ma perché segnò l’inizio di una rivoluzione culturale (ma allora pochi l’avevano capito) che ha portato la Cina ad essere quello che è oggi. Gli studenti scesi in piazza Tienanmen chiedevano libertà, diritti civili, elezioni democratiche (o almeno simili). Cose sconosciute nella forma di comunismo estremo più vicino ad una dittatura che alle idee che sono alla base di questa idea di “cosa comune”. Una rivoluzione, quella comunista, che aveva eliminato la monarchia e introdotto non la democrazia ma una sorta di oligopolio camuffato da comunismo.
La rivolta degli studenti a piazza Tienanmen fu il primo passo di questo cambiamento. Il prezzo fu la vita di molti giovani, morti per difendere i propri ideali, ed ancora oggi non si sa quanti furono realmente i morti e i feriti.
Cos’è cambiato da allora? Poco, almeno a prima vista. In Cina continua a persistere un regime quasi totalitario, seppure venstito da comunismo, dove molte delle libertà sancite dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani continuano ad essere sconosciute se non palesemente violate. E la situazione non sembra destinata a migliorare: la recente decisione del Parlamento cinese, fortemente voluta dal leader Xi, di non limitare più la carica di presidente a due mandati sembra voler portare sempre il paese verso il totalitarismo, cosa preoccupante sia per le etnie minoritarie che sotto il profilo sociale e religioso.
Per questo oggi in Cina si parla ancora di rivolta: a Hong Kong. Molti i punti in comune con la rivolta di piazza Tienanmen e altrettante le differenze. Ancora una volta sono i giovani a spingere il motore della rivolta. Ma i ragazzi che protestavano a piazza Tienanmen erano soli, i loro padri, le loro madri, le famiglie non comprendevano i motivi della loro protesta. Per loro la rivoluzione cinese era stato un cambiamento in meglio e l’idea di un comunismo reale in loro era ancora viva. Oggi i giovani che lottano per le strade di Hong Kong sono ben attrezzati e organizzati. Alle loro spalle non c’è una società che ha paura di cambiare, ma una intera regione che non vuole tornare indietro ed essere gestita come il resto della Cina. Milioni di persone che hanno assaggiato cosa significano le parole “consumismo”, “libertà”, “apertura delle frontiere”, internazionalizzazione sociale e non vogliono in nessuno modo rinunciare a questi benefici né aspettare che in resto della Cina cambi: il cammino è già stato avviato ma la strada è ancora lunga.
La rivolta degli studenti di piazza Tienanmen durò poche settimane. Quella di Hong Kong va avanti da anni, con alti e bassi. L’ultima tregua è stata dovuta alla diffusione del coronavirus. Proprio parlando del rischio di contagio, le autorità hanno vietato la tradizionale fiaccolata in memoria delle vittime di piazza Tienanmen a Hong Kong Park. Un rispetto della legge sulla “sicurezza nazionale” imposto da Pechino che ha fatto tornare alla memoria i motivi che erano alla base delle proteste degli studenti oltre trent’anni fa.
Oggi molte cose sono cambiate in Cina. Il paese non è più chiuso a guscio sulla propria economia interna, sulla ferrea convinzione di potercela fare da solo e di essere completamente autosufficiente. La Cina di oggi vive soprattutto di commercio internazionale, dei rapporti con i Brics e del nuovo potere che ha sugli scenari geopolitici internazionali. Un’apertura e una modernizzazione che però spesso devono fare i conti con l’assenza di evoluzione della politica interna: il governo di Xi Jinping sta cancellando tutto ciò che era “comune” e “comunismo” per fare della Cina un paese gestito da pochi, soprattutto ricchi. Dove la libertà di stampa e comunicazione sono ancora lontani. Diversi i giornalisti occidentali espulsi anche a Hong Kong dove nel 2018 a Victor Mallet, corrispondente del Financial Times, è stato negato il rinnovo del visto e poi vietato il rientro con un visto turistico. Ai giornalisti cinesi non sono concessi grandi spazi di manovra: uno di questi, che si nasconde dietro uno pseudonimo: il vero nome non è stato diffuso per motivi di sicurezza ed è uno dei giornalisti che osarono parlare dei morti durante la rivolta di piazza Tienanmen. Ora vive in Italia come rifugiato politico.
Ad Hong Kong a protestare non c’è più quello studente esile, a volto scoperto, con in mano i sacchi della spesa e nel cuore il coraggio estremo di chi decide di mettersi di fronte ad una colonna di carri armati sapendo che potrebbero schiacciarlo. Oggi a combattere in quella che sembra un vera guerriglia urbana ci sono migliaia e migliaia di persone ben organizzate tanto da riuscire a far chiudere l’aeroporto per una settimana e nel 2014 per oltre due mesi a bloccare diverse strade principali. Hanno il volto coperto per non farsi riconoscere e non nascondono la propria volontà di colpire duro, di scagliare mattoni e far esplodere bombe lanciandole verso la polizia. Le autorità dal canto loro stanno più attenti ai media ma non hanno paura di usare la forza per sedare la rivolta.
A piazza Tienanmen le proteste rimasero per strada. Oggi invece hanno raggiunto il Parlamento cinese dove sono state sedate con risolutezza: proprio ieri, la maggioranza ha deciso di discutere e approvare la nuova legge che impone il rispetto dell’inno nazionale e punisce con multe e con il carcere chi dimostra “irriverenza” verso “La marcia dei volontari”. Alcuni membi dell’opposizione, Chu Hoi-dick e Ray Chan, hanno spruzzato fertilizzante chimico in segno di protesta. “Quello che abbiamo fatto oggi serve per ricordare al mondo che non perdoneremo mai al Partito Comunista Cinese l’uccisione della sua gente, 31 anni fa”, ha detto Chu. Ma la loro protesta non è servita a nulla e tutto è ripreso in un’aura di finta normalità e di “democrazia”.
La rivolta di piazza Tienanmen non ebbe successo perchè i giovani, gli studenti, vennero lasciati soli dal resto della popolazione. La rivolta in atto ad Hong Kong non riesce ad andare oltre perché, come già avvenuto oltre tre decenni fa, i rivoltosi sono soli senza l’appoggio del resto della popolazione cinese (questa volta la limitazione non riguarda l’età ma i confini geografici della rivolta). Ora come allora fatte poche, piccole blande eccezioni i manifestanti non hanno l’appoggio dei paesi occidentali ai quali spesso non dispiace che in Cina le cose rimangano così come sono.