Lo Yemen nel conflitto tra fazioni e tra potenze

di Massimo Pascarella* –

Houthi grandeIl 21 settembre 2014, la fazione islamica Ansarullah, meglio conosciuta come il movimento sciita degli houthi, di concerto alle forze pro-Saleh – l’ex presidente dello Yemen spodestato nel 2011 dal prodotto della primavera araba nel Paese – ha acquisito il controllo della capitale yemenita Sana’a, espropriandolo dalle mani del governo di transizione retto dal presidente Abd Rabbo Mansur Hadi, esacerbando lo scontro regionale tra Riyadh e Tehran ed acuendo una situazione interna già di per sé disastrata.

Pedissequamente alla fuga in Arabia Saudita, il 25 marzo, Hadi si è appellato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per ottenere “qualsiasi tipo di supporto” contro i belligeranti, azione giustificante, ai sensi del diritto internazionale, la creazione ad hoc della coalizione di Stati volenterosi a ripristinare l’autorità legittima yemenita, messa in piedi dall’Arabia Saudita.
L’accordo è nato senza un mandato della Lega araba, decisione del governo di Riyadh intesa ad evitare una qualsiasi dipendenza da un partner in particolare, la cui operatività pragmatica (sotto l’accezione Decisive Storm, poi divenuta il 21 aprile Restoring Hope) ha visto la partecipazione attiva e solida del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC).
Jet da guerra partiti da Egitto, Marocco, Giordania, Sudan, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Qatar e Bahrain hanno preso parte alle operazioni sul territorio yemenita sotto il controllo dei ribelli – esclusivamente nei governatorati del nord – seguiti da missioni di addestramento ed equipaggiamento delle forze regolari yemenite, di concerto all’imposizione di un blocco aereo e navale (inteso a fermare il flusso di armi provenienti dall’Iran), portando il 78% della popolazione yemenita a ritrovarsi in stato di emergenza.
Il 10 settembre, il conflitto ha subito una forte escalation a causa dell’arrivo in Yemen di mille soldati provenienti dall’Arabia Saudita, dagli Emirati Arabi Uniti e dal Qatar, dell’invio di 800 soldati dall’Egitto, oltre alla promessa di forze militari da parte del Bahrain, del Kuwait, della Giordania e del Marocco (le cui cifre permangono aleatorie), secondo quanto riporta la fonte al-Jazeera.
Dal settembre 2014 ad oggi, secondo l’UNHCR, sono morte circa 5.400 persone (tra cui 2600 civili), mentre il numero degli sfollati interni è salito a 2.3 milioni.

La jihad.
Attraverso l’acquisizione effettiva di territori ed il consolidamento di postazioni previamente detenute in aree yemenite in cui la podestà governativa risulta(va) di fatto blanda o assente, gli unici beneficiari diretti del conflitto in Yemen sono stati i gruppi estremisti quali al-Qaeda e l’Isis, riuscenti, pertanto, a riempire lo spazio lasciato dal collasso delle istituzioni statali.
Già da inizio aprile, al-Qaeda nella Penisola arabica (AQAP) detiene il controllo di Hadramut, il governatorato più grande dello Yemen ed importante regione strategica in termini energetici (in quanto forniva un terzo della produzione petrolifera totale yemenita prima dell’inizio della guerra).
Contemporaneamente, l’ISIS, che in Yemen si denomina “Wilayat Sana’a”, sta cercando di accelerare il conflitto settario nel Paese e tentare di attecchire ai miliziani dell’AQAP (che rimane il gruppo jihadista dominante nel Paese).

Il Cairo.
Il 30 luglio, Egitto e Arabia Saudita hanno firmato la Dichiarazione del Cairo mirante a rafforzare la cooperazione tra i due Stati alla luce dei recenti sviluppi regionali, istituendo altresì una forza araba congiunta in funzione di minacce esterne. Quest’ultima sembra apparire come misura saudita rivolta al contenimento iraniano nella regione, mentre il governo del Cairo spera di poter giocare un ruolo (intra) regionale nella Lega araba. In questi termini, l’Egitto potrebbe aiutare a garantire la sicurezza dello strategico Stretto di Bab el-Mandeb – situato tra lo Yemen nella penisola arabica e Gibuti ed Eritrea nel corno d’Africa, collegante il Mar rosso al Golfo di Aden – che permette l’accesso al Canale di Suez e ne controlla il traffico, e dove 3,8 milioni di barili di petrolio al giorno transitano verso Europa, Asia, e USA.

L’importanza degli Stretti.
La contesa tra Tehran e Riyadh non concerne solo lo Stretto di Bab el-Mandeb, ma si sposta anche nel Golfo Persico per l’influenza sullo Stretto di Hormuz.
Quest’ultimo si presenta come il più importante punto di transito marittimo di petrolio, attraversato da circa 17 milioni di barili al giorno diretti verso mercati asiatici: Giappone, India, Corea del Sud e Cina rappresentano le maggiori destinazioni.
Giocoforza, tali esportazioni incidono fortemente sul prezzo di petrolio e derivati, ergo, un controllo unilaterale iraniano di Hormuz lederebbe, oltre l’Arabia Saudita, Israele, Giordania, Egitto, Arabia Saudita, Sudan ed Eritrea.

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Arabia Saudita.
Se, come l’Arabia Saudita pianifica, gli houti sono forzati a ritirarsi da Sana’a, da Ma’rib (ricca di petrolio) e da Taiz, verso Saada, gli houti diventerebbero quella minaccia di confine che tanto preoccupò l’Arabia Saudita nell’agosto del 2009 e che portò alla progressiva invasione saudita dello Yemen attraverso l’operazione Scorched Earth volta a contrastare i belligeranti sciiti, supportati dalle forze iraniane Quds.
Nonostante il governo di Riyadh cerchi di enfatizzare il suo supporto per un governo yemenita univoco ed unito diretto da Hadi, rimane aggrovigliata con i gruppi di inclinazione separatista del sud, rappresentanti la forza militare più efficace contro gli houti, soprattutto dopo la disfatta dell’esercito regolare di Sana’a.

Iran.
Bisogna considerare che quello in Yemen si presenta come uno dei tre fronti “ufficiali” per il governo iraniano, dove nutre maggiore influenza ed interessi, posto che lo Yemen rappresenta il secondo Paese al mondo, dopo l’Iran, per numero di sciiti; ergo, un’attività economica dispendiosa per le sue casse. Tuttavia, Tehran ha schierato, ai primi di aprile, il cacciatorpediniere “Alborz” di concerto alla nave d’appoggio denominata “Bushehr” nel Golfo di Aden, afferenti alla funzione di sicurezza degli interessi iraniani ed aventi mansioni di anti-pirateria.

Russia.
Subito dopo l’inizio delle operazioni aeree in Yemen guidate da Riyadh, il Cremlino – attraverso il suo leader propagandistico Dmitry Kiselyov – ha cercato di equiparare la situazione ucraina con quella yemenita, asserendo che se i sauditi possono supportare Hadi, ed addirittura bombardare lo Yemen, allora la Russia può supportare Victor Janukovych, il presidente ucraino rimosso dal potere a causa delle forti proteste civili.
La Russia sta mantenendo stretti contatti con tutte le parti del conflitto in Yemen, ma non ha elaborato una strategia indicante con chi esattamente approcciare tra i richiedenti appoggio.

Usa.
Il coinvolgimento statunitense in Yemen ha contribuito a peggiorare la crisi. Il supporto del governo di Hadi agli attacchi dei droni statunitensi contro l’AQAP contrasta con l’opinione popolare yemenita, oltraggiata dalle vittime innocenti e sempre più veicolata da un dissenso generale nei confronti del regime di Hadi.
Attualmente gli Stati Uniti stanno fornendo intelligence e supporto logistico alle operazioni della coalizione per mantenere il controllo sullo Stretto di Bab el-Mandeb, sul Golfo di Aden, e sull’isola di Socotra, a difesa del traffico petrolifero tra gli Usa ed i Paesi del Golfo persico, e del commercio del gas passante per il canale di Suez e diretto verso il nord America.

Eritrea.
Dopo il rifiuto di Gibuti alla proposta di unirsi alla lotta contro gli houthi, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno stipulato un accordo con l’Eritrea. La coalizione userà il territorio per stabilire una base militare strategicamente chiave, lo spazio aereo e le acque territoriali di Asmara, e vedrà 400 soldati eritrei unirsi al contingente degli Emirati nella lotta contro i ribelli houti.
L’Eritrea spera, con tale accordo, di alleviare le tensioni con Washington e di inizializzare il processo di rimozione delle sanzioni impostele dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite nel 2009, a causa del preponderante appoggio militare e finanziario fornito da Asmara al gruppo jihadista al-Shabaab, attivo in Somalia, nonché per il persistente conflitto intrattenuto con l’Etiopia e il Gibuti.
Di converso, coinvolgere l’Eritrea nella coalizione araba sembra costituire una decisione geostrategica per ostacolarne i contatti con l’Iran ed i miliziani houti (riducendo l’impegno iraniano in Yemen) ed, inoltre, per usare il porto di Assab come centro logistico locale. Data la grande distanza marittima che intercorre per arrivare ad Aden dal Sudan, dall’Egitto, dall’Arabia Saudita o dagli Emirati Arabi Uniti, il porto di Assab è situato in una locazione straordinariamente vantaggiosa.

Sudan.
In seguito alla promessa di investimento saudita nel settore agricolo del Sudan, quest’ultimo ha aderito alla coalizione ed il 18 ottobre ha inviato un contingente militare di circa 300 soldati in Yemen. Nonostante ciò rimane dubbia la permanenza del governo di Khartum, da sempre alleato dell’Iran, nella sfera degli interessi sauditi, considerando il ruolo di transito per il traffico d’armi diretto verso gruppi terroristici che operano ai confini dello Stato d’Israele (Hezbollah, Hamas ed altri gruppi militanti palestinesi nella Striscia di Gaza).
Giocoforza, l’attrazione verso il commercio d’armi intrattenuto tra il Sudan e l’Iran assume un ruolo fondamentale per Khartum.

Israele.
Il grande nemico comune e per Israele e per l’Arabia Saudita è l’Iran. Nonostante gli slogan “Death to Israel” e “Damn the Jews”, lo Stato d’Israele ha deciso per un non-intervento in Yemen, non considerando la situazione vigente una minaccia per la sua sicurezza nazionale. Inoltre lo Stato d’Israele, avendo vissuto le conseguenze delle operazioni della coalizione guidata dagli USA nella seconda guerra del Golfo e in Libia con la NATO nel 2011 (senza considerare l’attuale situazione nella striscia di Gaza), alla correlata perdita di potere centrale ed all’aumento del terrorismo jihadista, non vede di buon occhio la partecipazione a tali operazioni (peggio ancora se attraverso forze militari terrestri) aumentando di concerto l’ostilità nei suoi confronti, forse già sapendo che un’eventuale soluzione preveda personalità estremiste sciite nello pseudo-governo di unità nazionale post- conflitto. Il governo di Benjamin Netanyahu ben conosce le minacce derivanti dalla nascita di Stati falliti con la correlata insorgenza di gruppi estremisti islamici (in taluni casi) asserventi a compiti governativi (Hamas a Gaza).

Pakistan.
Il governo di Islamabad non ha ottenuto l’autorizzazione parlamentare per unirsi alla lotta attiva contro Ansarullah, mantenendo la sua neutralità. La decisione è stata dettata dalla priorità di bilanciare le relazioni tra Riyadh e Tehran, cercando di non aizzare la frangia sciita in Pakistan, costituente circa il 20% di una popolazione in cui i musulmani rappresentano il 97%, (ri)accendendo conflitti settari e terrorismo interno. Nonostante ciò il governo di Islamabad potrebbe giocare un ruolo futuro in Yemen, fungendo da peace broker in ossequio ad operazioni di peace-building.

Come si configura il conflitto in Yemen per il diritto internazionale?
Il diritto internazionale umanitario opera una distinzione tra conflitti armati internazionali e non internazionali. Secondo la Convenzione di Ginevra del 1949, le norme afferenti i conflitti armati del primo tipo ineriscono a conflitti tra due o più Stati. Previsto che il diritto umanitario internazionale non fornisce una guida sulla rappresentanza giuridica degli houthi in quanto Stato yemenita, essendo una materia di diritto internazionale generale, ergo, l’autorità houti non presenta i requisiti di statalità sostanziale (effettività ed indipendenza).
In quanto conflitto armato non internazionale, le parti del conflitto possono essere rappresentate da forza governative da un lato e da uno o più gruppi armati non statali, o tra due o più gruppi belligeranti. Per il diritto internazionale, i gruppi armati devono dimostrare di possedere una sufficiente organizzazione e controllo per sostenere operazioni militari ed aderire al diritto internazionale umanitario, in modo da esser considerati parti del conflitto. Per costituire un conflitto armato deve sussistere altresì un sufficiente grado d’intensità di belligeranza e di ostilità tra le parti, di modo da dimostrare che non ci si trovi dinanzi a dei meri atti sporadici di violenza.
Quindi il conflitto in Yemen presenta i tratti tipici di un conflitto armato non internazionale.
Da notare che lo Yemen non è parte dello Statuto di Roma – il Trattato che ha istituito la Corte penale internazionale (ICC), attraverso la quale è possibile condannare i fautori di crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di guerra – ergo, in assenza della ratifica del relativo Statuto della Corte o accettazione delle competenze tramite dichiarazione da parte del governo yemenita, la ICC potrebbe ottenere la giurisdizione sui crimini in Yemen solo se il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deferisse la situazione alla Corte.
Ulteriore possibilità sopraggiungerebbe nel momento in cui il conflitto in Yemen sfociasse nel territorio di un altro Stato che abbia aderito allo Statuto della Corte penale internazionale; in questo caso lo Stato “vittima” sarebbe legittimato ad adire direttamente la Corte.

Conclusioni.
L’Iran non è la causa della guerra civile in Yemen, né gli houthi agiscono i quanto suoi delegati. Mancando di interessi strategici ed economici vitali nel Paese, l’Iran ha (dal 2003 al 2004) opportunisticamente supportato gli houti per creare una sfera d’influenza politica attraverso una strategia di soft power incentrata su investimenti minimi di supporto al separatismo ed alle defezioni estremiste sciite.
La mezzaluna sciita difficilmente si presta ad aperture pragmatiche in Yemen, considerato il forte contrappeso saudita ed i vari interessi afferibili (soprattutto) ai Paesi del GCC in merito al controllo degli Stretti di Hormuz e di Bab el-Mandeb.
Ciò in previsione del fatto che l’avvento iraniano su tali stretti potrebbe bloccare in un primo momento le esportazione petrolifere dai Paesi del Golfo e, successivamente, reindirizzare i tragitti aggirando il continente africano, aumentando i tempi di consegna e provocando un’affilante crescita del prezzo del petrolio.
D’altro canto, un’intromissione di truppe terrestri USA con compiti coercitivi appare improbabile, aggrovigliati con la crescente minaccia jihadista in Siria ed in Iraq. L’unica soluzione rimane la ricerca del compromesso: coniugare i vari interessi e bisogni delle rivalità locali e di quelle regionali (Arabia Saudita ed Iran) – ed è qui che entrerà in gioco la diplomazia USA “kennediana” e “kissingeriana” (annotato il silenzio-assenso russo). Il governo post-bellico, che dovrà inglobare necessariamente anche personalità houthi, dovrà affrontare un referendum d’approvazione ed esperire a riforme basilari ma necessarie alla riduzione della forte sperequazione economica del Paese, seppur simboliche ma miranti a garantire una stabilità minima ed iniziale allo Yemen.
Tale risoluzione in territorio yemenita potrebbe indurre, in prospettiva degli effetti dell’accordo iraniano, il governo di Sana’a a fungere di concerto all’Oman da intermediario nella distensione (ulteriore) delle relazioni tra l’Iran ed i Paesi del Golfo.

* Massimo Pascarella è laureato “in scienze politiche e relazioni internazionali” e possiede un Master in “analisi d’intelligence e conflittualità non convenzionale”. Collabora con la rivista-online “notiziegeopolitiche” occupandosi dei conflitti e dei cambiamenti di potere nel Vicino Oriente e dell’analisi dei gruppi jihadisti.