L’Onu ammette, ‘i paesi non riescono a farsi carico degli impegni della Cop21’

Clima: per Trump continua a non essere colpa dell’uomo, mentre in Brasile spariscono in un anno 7.900 kmq di foresta Amazzonica, pari a un milione di campi da calcio.

di C. Alessandro Mauceri

A pochi giorni dall’avvio dei lavori della COP24, che si terranno a Katowice in Polonia da 3 al 14 dicembre, le reali condizioni dell’ambiente a livello globale e le intenzioni di fare qualcosa di concreto per ridurre le emissioni di CO2 appaiono chiare. A dirlo sono stati per primi proprio i tecnici delle Nazioni Unite, nella cui relazione pubblicata oggi si ammette che i paesi non riescono ad adottare le misure necessarie per evitare i peggiori effetti del cambiamento climatico e che gli impegni assunti nell’accordo di Parigi (la COP21) del 2015 non saranno realizzati.
Della cosa Notizie Geopolitiche ne aveva già parlato in tempo non sospetti, ed oggi alle misure blande e basate su previsioni e su concessioni irrazionali come quelle a paesi in via di sviluppo come l’India o la Cina, si sono aggiunte le politiche di molti paesi che negli ultimi anni hanno fatto un passo indietro rispetto alle promesse sottoscritte a Parigi. Anzi in alcuni casi si è trattato non di un passo, ma di molti passi. La politica degli USA ormai non è più un mistero: dopo le dichiarazioni negazioniste di Donald Trump, secondo il quale non esisterebbe una prova scientifica dell’effetto dell’uomo sull’aumento delle temperature globali e sul legame con le emissioni di CO2 (cosa, per contro, ampiamente dimostrata da centinaia di studi condotti da scienziati del settore) e dopo il cambio al vertice dell’Agenzia americana per l’Ambiente (EEA), sono stati in molti a seguire le orme degli USA.

L’ultimo caso è quello del Brasile, dove la deforestazione è aumentata di circa il 14% tra l’agosto del 2017 e il luglio 2018. Una quantità di foresta pari “più o meno a un milione di campi di calcio”. E dopo l’elezione del presidente Jair Bolsonaro, che durante la propria campagna elettorale aveva promesso di ridurre le misure per la tutela ambientale evidentemente in favore delle industrie e delle multinazionali interessate a sfruttare le risorse della Foresta amazzonica, la situazione non potrà che peggiorare. A lanciare l’allarme è stato il coordinatore di Greenpeace Brasile, Marcio Astrini: tra il 2017 e il 2018 sono stati tagliati 7.900 chilometri quadrati di foresta, “Sono più o meno un milione di campi di calcio disboscati in appena un anno”. Il nuovo presidente “ha detto che metterà fine alle aree protette, alle terre riservate agli indiani, e che ridurrà le ispezioni e le sanzioni contro i crimini ambientali”. “Se facesse tutto questo – ha concluso Astrini – la deforestazione dell’Amazzonia potrebbe innescare una situazione inimmaginabile”.
Si tratta di politiche estremamente gravi e con ripercussioni sul clima in tutto il pianeta.

La cosa più grave è che non si tratta di scelte isolate. Anche in Europa, dove la Polonia (il paese dove si svolgeranno i lavori della COP24!) è stata accusata di voler abbattere l’ultima foresta millenaria d’Europa. Il ministro Jan Szyszko ha fatto sapere l’intenzione di chiedere la revoca del titolo di sito protetto dall’Unesco, che vieta le attività umane. La foresta di Bialowieza, che si estende oltre il confine tra Polonia e Bielorussia occupando circa 1.500 kmq di terreno, è patrimonio mondiale dell’Unesco dal 1979. Vi crescono abeti alti 50 metri, e poi querce e frassini alti 40 metri, che danno ricovero a 20 mila specie animali, tra cui 250 di uccelli e 62 di mammiferi, compreso il raro bisonte europeo. Ma il governo di Varsavia ha deciso di triplicare l’area soggetta a disboscamento. E pare che voglia farlo cominciando a tagliare proprio gli alberi ai confini di questa foresta.

Sono questi alcuni dei motivi che hanno spinto 16 capi di Stato e di governo europei a lanciare un appello congiunto, alla vigilia della Conferenza Onu di Katowice: “Sulla base delle competenze scientifiche e dei mezzi finanziari abbiamo l’obbligo nei confronti delle generazioni future di fare tutto ciò che è umanamente possibile per fermare i cambiamenti climatici e per rispondere ai loro perniciosi effetti. Facciamo appello alla comunità internazionale e a tutte le parti dell’accordo di Parigi: agiamo insieme, in modo deciso e rapido per fermare la crisi climatica globale”, si legge in una dichiarazione diffusa anche dal Quirinale. “Noi, Capi di Stato e di Governo firmatari di questa dichiarazione, siamo convinti che efficaci misure per la lotta ai cambiamenti climatici non siano solo necessarie di per sé, ma anche che queste creeranno ulteriori benefici collaterali e nuove opportunità per le nostre economie e società. Siamo convinti che l’adozione di misure sostanziali ci aiuterà a guidare il nostro pianeta verso un futuro sicuro, pacifico e prospero”, si legge nella nota.

Il fatto è che a Parigi, come in molte altre occasioni, alle belle parole e alle promesse non sono seguiti i fatti. Gunnar Luderer, uno degli autori del rapporto delle Nazioni Unite e scienziato senior presso l’Istituto di Potsdam per la ricerca sull’impatto climatico in Germania, ha detto che “C’è ancora un enorme divario tra le parole e gli atti, tra gli obiettivi concordati dai governi e le misure per raggiungere questi obiettivi. Solo una svolta rapida qui può aiutare. Le emissioni devono essere ridotte di un quarto di 2030” (per mantenere il riscaldamento a non più di 2C (3,6 F) al di sopra dei livelli pre-industriali).
La verità è che, nonostante le promesse fatte a Parigi, e le misure messe in campo dai paesi che non se le sono rimangiate, le emissioni di gas serra continuano ad aumentare. E gli investimenti nel settore delle energie rinnovabili e altre tecnologie per ridurre l’utilizzo di fonti fossili sono attualmente insufficienti per raggiungere gli obiettivi che ci si era prefissati. Se a questo si aggiunge che sono ancora moltissimi i paesi che continuano a concedere aiuti diretti e indiretti al consumo di queste fonti di energia appare evidente che non esiste una reale volontà di risolvere questo problema in temi rapidi o ragionevoli. Joyce Msuya, vice direttore esecutivo dell’ambiente delle Nazioni Unite, ha dichiarato che “La scienza è chiara: per tutte le azioni climatiche ambiziose che abbiamo visto, i governi hanno bisogno di muoversi più velocemente e con maggiore urgenza. Stiamo alimentando questo fuoco, mentre i mezzi per estinguerlo sono a portata di mano”.

Tutto il resto sono parole inutili. Nella lunga dichiarazione firmata da 16 capi di Stato e di governo europei si legge che “Tre anni fa, il 12 dicembre 2015, il mondo è stato testimone di un grande momento di speranza e di fiducia: alla COP21, la comunità internazionale ha adottato lo storico accordo di Parigi con l’obiettivo di rafforzare la risposta globale alla minaccia dei cambiamenti climatici, mantenendo l’aumento della temperatura media globale ben al di sotto di 2 gradi Celsius rispetto ai livelli preindustriali, e proseguendo gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura entro 1,5 gradi Celsius”. Un invito a rivolto al Panel intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc) a preparare una relazione speciale sulla limitazione dell’innalzamento della temperatura globale a 1,5 gradi Celsius.
Ma quale sia la situazione è già ben noto. Così come è già evidente che a pagare il costo di questi seppur blandi aggiustamenti non saranno mai i responsabili delle emissioni (basti pensare alla politica della compensazione ancora altamente diffusa in tutto il pianeta), ma i singoli cittadini: saranno loro a doversi far carico delle nuove imposte sui combustibili fossili, del costo degli investimenti in tecnologie pulite e delle politiche governative più forti per ridurre le emissioni.
Jian Liu, tra i massimi esperti all’ambiente dell’ONU, ha detto che alcune delle politiche necessarie erano chiare e disponibili, se ci fosse volontà politica di effettuarle. “Quando i governi abbracciano misure di politica fiscale per sovvenzionare alternative a basse emissioni di carbonio e combustibili fossili fiscali, possono stimolare i giusti investimenti nel settore energetico e ridurre significativamente le emissioni di carbonio. Se tutte le sovvenzioni di combustibili fossili sono state eliminate, le emissioni globali di carbonio potrebbero ridursi fino al 10% di 2030”.
Il prezzo del carbonio è in questo momento estremamente (e volutamente) basso cosa che rende difficile promuovere alternative e introdurre tasse spesso impopolari e schemi per ridurre il carbonio attraverso lo scambio di emissioni spesso contestati dalle imprese.
Le promesse fatte anche in molte altre occasioni non sono state in grado di evitare che le emissioni globali raggiungessero quelli che l’ONU ha recentemente chiamato “livelli storici” di 53,5 gigatonnellate di anidride carbonica equivalente. E con un trend ancora crescente, nonostante un livellamento off negli ultimi dieci anni.

Viste queste premesse non è difficile prevedere che anche la COP24 sarà un fallimento, ed anche le ultime due COP erano state concentrate quasi esclusivamente sullo sforzo di far cambiare rotta agli USA. E la prossima COP è stata preceduta da una serie di iniziative da parte del governo americano che non lasciano sperare niente di buono: nei giorni scorsi Donald Trump ha detto di non credere neanche all’ultimo rapporto della sua amministrazione che aveva lanciato un allarme circa il rischio di inizio del cambiamento climatico.
Oggi solo 57 paesi,e molti di questi tra i più “sviluppati” del pianeta, sono responsabili del 60% delle emissioni globali di gas serra, sembrano volere fare qualcosa per ridurre un pochino le loro emissioni prima del 2030. Ma i loro sforzi non serviranno a nulla se gli altri paesi non faranno la propria parte per ridurre le emissioni. Secondo l’IPCC anche se si riuscisse a limitare l’aumento delle temperature a 1,5°C potrebbero verificarsi aumenti sensibili del livello del mare, siccità, inondazioni e altri eventi meteorologici estremi.
Per ottenere risultati concreti bisognerebbe abbattere i consumi di combustibili fossili non solo per autotrasporto ma soprattutto per l’industria. A questo si aggiunge che molte infrastrutture come gli edifici, le reti di trasporto e la generazione di energia oggi si basano su combustibili fossili e i cambiamenti necessari richiederebbero decine di miliardi di investimenti per ogni paese e comunque decenni per essere attuati. Tempo che la Terra potrebbe non avere: “La finestra di opportunità sta iniziando a chiudersi – ha detto Jennifer Morgan, di Greenpeace International -, se non riusciamo ad cogliere ora questa opportunità, sarà tardi”.
Tutti segnali evidenti e chiari, ma che non serviranno a nulla contro le pressioni delle multinazionali e del settore industriale che ad oggi ha già dimostrato di non essere in alcun modo disponibile a sostenere i costi per cambiare il proprio modo di produrre. E di non aver alcun timore delle misure che i governi potrebbero imporre per ridurre le conseguenze di un certo stile di vita sull’ambiente. Anzi.