Nagorno Karabakh. C’è il cessate-il-fuoco, ma per l’Armenia è la sconfitta

La svolta dopo la conquista azera di Shusha. Putin fa da pacere. A Baku si festeggia, a Erevan i manifestanti aggrediscono il presidente del parlamento.

di Enrico Oliari

Nuovo cessate-il-fuoco mediato dal presidente russo Vladimir Putin per il conflitto del Nagorno Karabakh, una tregua che ha tutte le caratteristiche per diventare definitiva e mettere fine a 45 giorni di aspri combattimenti tra i militari dell’Azerbaijan e quelli del piccolo stato autoproclamatosi indipendente agli inizi degli anni Novanta, sostenuti dalle forze armene.
La svolta è arrivata con la conquista da parte azera della strategica città di Shusha, posta su un altopiano che apre la strada per la capitale della regione Stepanakert, e tra i termini dell’accordo vi è l’invio di una forza di pace russa composta da 2mila uomini, 90 mezzi corazzati e 360 veicoli, di cui una prima parte già giunta sul posto.
Non è chiaro chi abbia iniziato il 27 settembre a colpire per primo e a dare il via a una guerra che si è tradotta in numerose vittime fra i militari e i civili, con accuse reciproche dell’impiego di armi proibite dalle convenzioni internazionali, ma è certo che l’acuirsi del conflitto era solo una questione di tempo, dal momento che esso risale agli inizi degli anni Novanta, quando la piccola regione del Nagorno Karabakh si proclamò indipendente dall’Azerbaijan con il sostegno dei militari armeni, che occuparono anche altre sette provincie azere causando oltre un milione di profughi. Il prezzo di quella prima fase del conflitto fu di 30mila morti. Come ha fatto notare su Notizie Geopolitiche l’ambasciatore dell’Azerbaijan a Roma, Mammad Ahmadzada, “L’Armenia ha ignorato documenti adottati da numerose organizzazioni internazionali sul conflitto, comprese quattro risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che riconoscono la regione del Nagorno-Karabakh come parte della Repubblica dell’Azerbaigian e richiedono il ritiro completo, immediato e incondizionato delle forze di occupazione da tutti i territori occupati dell’Azerbaigian e il ritorno di rifugiati e profughi interni alle loro terre”.
Ancora non sono del tutto conosciuti i termini dell’accordo, ma la soddisfazione espressa da parte azera e la delusione che si respira a Erevan, dove tra le proteste è stato aggredito è picchiato il presidente del parlamento Ararat Mirzoyan, indicano senza dubbio la vittoria degli azeri.
E’ stato il premier armeno Nikol Pashinyan ad annunciare in patria la firma del cessate-il-fuoco: lo ha fatto con un post sulla sua pagina Facebook, parlando di una “decisione molto difficile” e di una dichiarazione “incredibilmente dolorosa per me personalmente e per il nostro popolo”.
Una firma però obbligata, dal momento che l’Armenia non ha avuto dalla sua quell’aiuto militare e politico che si aspettava da Mosca, dove il capo del Cremlino ha preferito vincere nella qualità di pacere che immischiarsi nel conflitto di una regione remota rompendo i già delicati equilibri geopolitici ad esempio con la Turchia. Paese questo che invece ha sostenuto con decisione l’Azerbaijan: già nel 2014 l’allora ministro turco per gli Affari Europei Mevlut Cavusoglu (oggi agli Esteri) aveva affermato che “Favoriremo sempre una soluzione pacifica ma l’Azerbaigian ha il diritto a riprendersi ciò che gli appartiene”.
Oggi il presidente del parlamento turco Mustafa Sentop ha comunicato che “il nemico (l’Armenia, ndr.) ha accettato il diritto dell’Azerbaijan di riprendersi ciò che gli appartiene. L’Armenia ha dovuto arrendersi e ritirarsi dal Karabakh, che aveva occupato e dove aveva compiuto massacri. Con la sconfitta dell’Armenia si è chiusa una tragica pagina di storia”.