Niger. Per gli Usa vanno bene anche i golpisti

di Francesco Giappichini

«Non esiste una soluzione militare accettabile. Rimaniamo concentrati sul percorso diplomatico per raggiungere i risultati che vogliamo, vale a dire il ritorno all’ordine costituzionale, e credo che ci sia ancora spazio per raggiungere questo risultato attraverso la diplomazia». Questa dichiarazione del segretario di Stato degli Stati Uniti, Antony Blinken, dedicata al colpo di stato in Niger, è datata: risale all’8 agosto. Da allora tuttavia per Washington poco è cambiato: contrarietà rispetto a un intervento militare, e disponibilità a una soluzione negoziata, nonostante l’insofferenza contro i golpisti da parte di Francia e Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale.
Secondo alcuni analisti, la decisione statunitense dipenderebbe dall’esigenza di rimanere sul campo: per contrastare l’estremismo islamico, e in funzione antirussa e anticinese. Nel Paese del Sahel sono presenti 1100 militari statunitensi, dislocati nelle basi di Niamey ed Agadez: qui sono presenti i droni General atomics Mq-9 Reaper, che forniscono informazioni d’intelligence e partecipano alla lotta contro il terrorismo. Ebbene i nordamericani temono che l’attacco li obblighi a un ritiro, che lascerebbe campo libero a Mosca, al Gruppo Wagner o a Pechino. La strategia dialogante di Washington è apparsa evidente dal 7 agosto, quando il vicesegretario di Stato degli Stati Uniti, Victoria “Toria” Nuland, si reca a Niamey, in visita ai golpisti.
Il viaggio, inefficace sul piano pratico, ha però chiarito le divergenze con Parigi, che ha fatto trapelare malumore. E lo stesso tempestivo arrivo del nuovo ambasciatore, Kathleen Fitzgibbon, dimostra la flessibilità verso la giunta golpista, e la volontà di evitare lo scontro. Che invece Parigi, se vi fosse il beneplacito della Casa Bianca, giudicherebbe il minore dei mali. Ovviamente l’esperta diplomatica, la cui nomina è stata approvata dal Senato il giorno successivo al golpe, non presenterà le credenziali ai golpisti. Il che rappresenterebbe un obbrobrio giuridico. Tuttavia manterrà aperto un canale di comunicazione col governo de facto, e in particolare col generale Moussa Salaou Barmou: non solo il nuovo capo di stato maggiore ha ricevuto addestramento negli Stati Uniti (sia a Fort Moore che alla National defense University), ma per anni i suoi uomini hanno condiviso gli avamposti con i militari americani.
Le possibilità di un conflitto armato, dunque, si riducono: in primis per la presa di posizione statunitense, ma anche per altri motivi. A cominciare dal consenso di cui pare godere la giunta militare del generale “Omar Tchiani”, al secolo Abdourahamane Tchiani: anch’egli, manco a dirlo, con un passato di svariati corsi di formazione negli Stati Uniti. Tra l’altro il président du Conseil national pour la sauvegarde de la patrie de la république du Niger, poiché galvanizzato dalle folle, ha fatto intendere che la transizione può durare sino a un triennio. Inoltre Francia e Economic community of west african states (Ecowas) iniziano a temere che l’intervento possa vanificare la lotta contro il terrorismo: il Niger fa parte sia del G5 Sahel (G5S) che della Multinational joint task force (Mnjtf). Ciò va ad aggiungersi ai timori per l’aumento dei flussi migratori, per l’aggravarsi delle tensioni con Parigi, e per i costi eccessivi: in termini economici, e di vite umane. Così la stessa Unione africana (Ua) ha finito per dividersi tra falchi (in primis Sudafrica e Namibia) e colombe (in evidenza Ciad e Algeria).