Pensieri sul mondo. Intervista alla senatrice Barbara Contini, esperta di geopolitica

‘Le Città’ –

di Enrico Oliari – La situazione internazionale è in continuo fermento: internet, la globalizzazione, la velocità dei trasporti stanno rapidamente cambiando il mondo attorno a noi ed è un errore non dare il giusto peso ai fenomeni complessi e dagli esiti imprevedibili che animano un’area che abbraccia, geograficamente ma non solo, il nostro paese.
Spesso, infatti, si guarda alla Primavera araba come ad un fenomeno lontano nello spazio e nel tempo, certi che quel braccio di mare che ci separa dall’Africa e dal Medio Oriente sia una barriera naturale in grado di preservare noi europei dalla tempesta che sconvolge il mondo; il battito d’ala di una farfalla a Pechino si può tradurre in un forte vento sulla nostra economia e la separazione in due di un paese come il Sudan può incidere sul prezzo del carburante della nostra auto: sono fenomeni continui ed intensi, che è importante saper riconoscere, per non subirne gli effetti.
Notizie Geopolitiche ne ha parlato con la senatrice Barbara Contini, esperta di geopolitica: laureata in Lingue e letteratura orientali all’Università di Napoli ‘L’Orientale’, è esperta di diplomazia e di negoziazioni internazionali e parla diverse lingue, fra le quali il giapponese, l’arabo ed il serbo-croato.
Il suo curriculum parla da solo e non vi è paese in crisi dove non abbia operato: basti citare la Bosnia Erzegovina, dove dal 1998 al 2002 è stata Direttore regionale dell’Osce, l’Iraq, dove per due anni è stata governatrice della provincia di Dhi Qar, comprendente 20 città fra le quali il capoluogo Nasiriyya ed il Sudan, dove ha vissuto la separazione del paese e la nascita del Sudan del Sud..
La incontriamo a Bolzano, in occasione di una conferenza organizzata dall’associazione Futuro Alto Adige:
– Senatrice Contini, parliamo di Iraq. 13mila morti da una parte, 23mila dall’altra, un milione e 300mila vittime civili di cui non si parla, armi di distruzione di massa mai trovate, 500 miliardi di dollari investiti dalle banche occidentali per la ricostruzione, affermazione dei radicalismi, arrivo nel paese di al-Qaeda, ritorsioni degli sciiti, alti costi della guerra, continui attentati… ma cosa ci siamo andati a fare, noi, in Iraq?
“Vorrei premettere che l’Iraq è un grande paese, con una grande storia, con professionisti preparati e di grande spessore: noi italiani, come gli inviati di altri 58 paesi, non siamo andati in Iraq con lo scoppio della guerra, ma alla fine, per portare sicurezza e stabilità e per evitare che gli appartenenti al partito di Saddam Hussein, il Ba’th, facessero ritorsioni sulla popolazione. Personalmente non approvo la ‘guerra preventiva’, credo di più nel lavoro di intelligence, ma va detto che vi erano frange della popolazione letteralmente schiacciate dal regime, come nel caso dei curdi, a nord, o degli sciiti, a sud”.
– Il sospetto, tuttavia, è che sia una guerra fatta per il petrolio…
“No, agli Usa non interessava il petrolio iracheno. Era più un problema di carattere geopolitico, strategico: era importante avere una presenza stabile in quella specifica area, a ridosso dell’Iran”.
– Parliamo di Primavera araba: la caduta di Ben Alì, in Tunisia, ha lasciato spazio ai salafiti ed ai radicalisti; nella Libia che fu di Gheddafi oggi si parla di secessione della Tripolitania dalla Cirenaica ed a sua volta dal Fezzan; Egitto i Fratelli musulmani stanno infiammando l’Egitto del dopo Mubarak: ma a noi europei non convenivano più le dittature?
“L’Europa ha fatto l’errore di non seguire la Primavera araba, o meglio, le Primavere arabe minuto per minuto: bisognava essere lì, per guidare ed aiutare la gente. Oggi assistiamo ad uno sconvolgimento totale e nel sud di questi paesi, nel deserto senza confini, può passare di tutto, compresi i militanti di al Qaeda. I dittatori laici garantivano stabilità, controllo e sicurezza. Si intende, non sto prendendo le difese dei dittatori, ma vorrei fare un esempio: in Egitto Mubarak organizzava incontri internazionali, proprio per la vocazione di stato cuscinetto fra i vari blocchi, per cui era rispettato un certo ordine; oggi, dove vuole che si nascondano i terroristi di al-Qaeda, se non in una città, com’è il Cairo, di 20 milioni di abitanti?. Da parte europea c’è stata una palese sottovalutazione, in quanto non si è considerato che nel mondo d’oggi una cosa che al mattino succede lì, già alla sera ce lo ritroviamo qui”.
– La situazione in Siria è sempre più incandescente ed abbiamo assistito al veto di Cina e di Russia per un intervento delle Nazioni Unite. Tuttavia lascia anche perplessi il silenzio di Israele, forse per la questione delle alture del Golan, forse per il gas che gli arriva proprio dal regime di al-Assad. Ci sono quindi interessi affinché la situazione rimanga in questo stato a lungo?
“Non è una questione di gasdotto. I problemi sono la Russia e la Cina, che in questa parte del mondo hanno molti interessi: è una situazione delicatissima, poiché la Siria è un contrappeso alla presenza dell’Occidente nell’area. In quest’ottica la stessa questione palestinese non è da vedersi come la contrapposizione di due popoli, bensì perché è al contatto di due zone tettoniche, ovvero l’Occidente da una parte, Russia e Cina dall’altra. La Siria ed altre parti dell’area sono vere e proprie zone cuscinetto ed in particolare sul paese di al-Assad posso dire di aver visto filmati cose ignobili commesse da gruppi qaedisti che si sono lì insediati. Io penso che sia arrivato il momento per la Russia di cedere e quindi di intervenire in Siria”.
– Sudan e Sudan del Sud, divisi, anche per una questione di petrolio, che l’uno può esportare e l’altro estrarre, ma che è privo di sbocchi sul mare. Soffiano venti di guerra: cosa pensa accadrà?
“Non ho visto come una scelta giusta la separazione del Sudan del Sud dal paese di al-Bashir. Il Sudan del Sud si è separato grazie all’interesse ed all’aiuto degli Stati Uniti, ma io penso che sia stato un errore gravissimo. Anche perchè, nel frattempo, l’Africa sta per essere fagocitata dai cinesi, i quali stanno costruendo infrastrutture e prendendo materie prime.
Ora il Sudan del Sud sarà in mano ad una decina di famiglie, le quali gestiranno uno stato sul limite dell’indigenza, mentre a nord c’è più organizzazione.
Non credo, quindi, che si sia giunti alla secessione per motivi religiosi, come qualcuno ha detto, con i cristiani a sud e i musulmani a nord. La realtà è che di mezzo vi sono molte materie prime, come petrolio, oro e pietre preziose e non è un caso se Juba, in occasione dei trattati, ha lasciate aperte alcune questioni territoriali importanti, come, per esempio, il Kordofan meridionale”.