Perù. Tutto il Latino America progressista con Castillo (o quasi)

di Francesco Giappichini

Gli avvenimenti che hanno scosso l’ordinamento costituzionale del Perù, portando all’investitura di Dina Boluarte, come sesto capo dello stato dal ’18, sono stati oggetto d’interpretazioni per niente univoche. Mentre in Europa e in America settentrionale si è parlato di un golpe dell’ex presidente Pedro Castillo, per le classi dirigenti dell’America latina a guida progressista è stato invece il Congresso di Lima a eseguire un “golpe blando”. Un potere legislativo, si è rimarcato, che rappresenta élite di origine europea, che non sarebbero per nulla sensibili, ça va sans dire, alla volontà popolare. Andiamo però con ordine, cominciando dalla recente dichiarazione congiunta dei governi di Colombia, Messico, Bolivia e Argentina, promossa dal ministro degli Affari esteri di Bogotà, Álvaro Leyva. In primis si mette nero su bianco che Castillo, sin “dal giorno della sua elezione, è stato vittima di vessazioni antidemocratiche, in violazione dell’articolo 23 della Convenzione americana sui diritti umani”. Poi si chiede che “chi compone le istituzioni si astenga dal rovesciare la volontà popolare espressa con il libero suffragio”.
Un documento duro, che peraltro ricalca la posizione altrettanto severa, espressa dal presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador. Che ha infatti parlato di un colpo di stato “blando”. Sulla stessa linea, il presidente di Cuba, Miguel Díaz-Canel. A suo giudizio, la rimozione e l’arresto di Castillo, sono “il risultato di un processo guidato dalle oligarchie dominanti, per sovvertire la volontà popolare”. Mentre l’intervento del presidente del Venezuela, Nicolás Maduro, ripresenta sì i suddetti argomenti, e in particolare le responsabilità dell'”oligarquía limeña” nell’aver cospirato in vista di questo “golpe parlamentario”. L’inquilino di Palazzo Miraflores va tuttavia oltre, e spiega come gli eventi peruviani stiano lì a dimostrare che un governo popolare deve necessariamente allearsi con le Forze armate: ha detto che in Venezuela, governa una “forza politica militare”, aggiungendo che “si vede cosa è successo in Perù, la rivoluzione bolivariana cresce con il suo popolo e la sua implacabile, impeccabile e perfetta unione civica – militare”.
A quest’allineamento si sottrae però l’Esecutivo progressista cileno. Dall’entourage del presidente Gabriel Boric, si lascia trapelare che una certa cautela è d’obbligo: il Perù è un Paese vicino, e ogni segnale può avere effetti dannosi sui rapporti bilaterali, (specie alla luce della regia occulta dell’esercito, aggiungiamo noi, dietro quest’operazione di destituzione). Resta tuttavia il fatto che nel subcontinente si assiste a un abuso dell'”impeachment”, che finisce per snaturare l’essenza stessa della forma di governo presidenziale.
Come nel luglio ’16, in occasione della destituzione dell’ex presidente brasiliana Dilma Rousseff, segnalò l’allora vicepresidente della Camera dei deputati, Marina Sereni: “C’è un punto che indubbiamente colpisce un osservatore esterno; cioè che in seguito ad una procedura d’impeachment – che porta a investire del ruolo di presidente il vice – possa derivare un Governo di segno politico opposto, rispetto a quello emerso sulla base delle ultime elezioni presidenziali. Questo dimostra plasticamente l’anomalia e la fragilità del sistema politico brasiliano, di quel presidencialismo de coalizão, che indebolisce qualsiasi presidente della Repubblica, costretto ad andarsi a cercare le maggioranze in un Parlamento molto frammentato”.