Quelle aziende “felici” di vendere armi all’Isis…

di C. Alessandro Mauceri –

Isis carrarmatoDa diversi anni l’espansione dello Stato Islamico è diventato un problema geopolitico di dimensioni globali. Oggi non si può più parlare di semplice terrorismo o di guerriglia: le dimensioni che caratterizzano tutte le azioni dell’IS sono tali da richiedere un’attenzione ben diversa. E se a finanziare queste azioni, fino ad ora almeno, è stato il petrolio (venduto “in nero” a diversi paesi – tra cui alcuni con i quali l’IS è in guerra), ben diversa è la situazione sotto il profilo di armi e armamenti: in molti si sono chiesti dove i militanti dell’ISIS sono riusciti a trovare gli strumenti necessari per fare una guerra che si espande su due continenti e che dura da diversi anni?
“Affari” di dimensioni tali da non permettere più di parlare di mercato nero o di furti d’armi (come quelli avvenuti in alcuni paesi proprio sulle armi lasciate dagli alleati occidentali): nessuno di questi sistemi basta a spiegare la quantità di bombe e ordigni di cui dispone l’esercito dell’IS.
A dire dove e come l’IS riesce a fabbricare le proprie bombe è stata la Conflict Armament Research (Car), un’organizzazione internazionale indipendente che studia le tipologie di armamenti utilizzati nei teatri di guerra. Sono stati loro che hanno deciso di indagare a fondo e di dirimere la matassa e i risultati sono stati raccolti in una pubblicazione, realizzata grazie al contributo dell’Ue, che nei giorni scorsi è stata mostrata al pubblico.
Ebbene, dai dati raccolti emerge che a fornire ogni genere di parti e componenti per costruire ordigni anche piuttosto complessi sono una ventina di paesi, alcuni dei quali in prima linea nella guerra contro l’ISIS. Alcuni degli stati che combattono i terroristi, sono gli stessi che li aiutano a dotarsi di armi e quanto necessario per combattere.
A vendere componenti usati dai “terroristi” per la costruzione di bombe e ordigni sono una cinquantina di società di 20 paesi. Corresponsabili di questi scambi sono la Turchia (con 13 società), l’India (con 7 aziende), ma anche alcuni “insospettabili” come il Brasile o la Romania. La ricerca poi ha confermato le responsabilità di molti paesi da tempo sospettati di fare affari con l’IS: a cominciare dagli USA e poi Cina, Russia, Belgio, Olanda, Repubblica Ceca, Iraq, Iran, Libano, Austria, Giappone, Svizzera, Finlandia, Vietnam, Emirati Arabi Uniti, Yemen. Sono questi paesi che continuano a vendere materiali utilizzati per costruire gli ordigni per gli attentati, le bombe e molto altro come prodotti chimici, detonatori, cavi, transistor etc.
Alcune delle aziende individuate operano direttamente, altre fanno da intermediarie o da tramite, fornendo ai guerriglieri dell’ISIS prodotti, semilavorati e materie prime acquistati in altri paesi.
Ma la cosa più sorprendente è che i ricercatori sono riusciti a trovare abbastanza facilmente le prove di questi commerci, puntualmente allegate alla ricerca. Si tratta di traffici che spesso avvengono alla luce del sole, senza neanche cercare di nascondere ciò che si sta facendo. Non a caso nel rapporto sono mostrati molti esemplari e parti di armamenti che normalmente finiscono nelle mani dei terroristi dell’ISIS. Del resto molti di questi prodotti, presi singolarmente, non sono considerati “armi” e quindi per loro non esiste alcun limite di commercializzazione nei paesi di provenienza e nessun obbligo di comunicazione al governo centrale, ammesso che in alcuni di questi paesi esista o valga a qualcosa. Se l’IS ha potuto dotare il proprio esercito di così tante armi e ha potuto condurre una guerra che sta cambiando i confini geopolitici del pianeta, lo deve certamente a questi scambi di merci e “spare parts”. Molti dei quali “disponibili” sul mercato e venduti dai produttori al miglior offerente anche quando si sa bene quale uso ne verrà fatto. Semilavorati e componenti che, trasformati da abili mani, continuano a provocare migliaia di morti e feriti. Effetti collaterali di un commercio internazionale prospero e di cui molte aziende e molti paesi pare proprio siano felici di far parte.