Ruanda. Accuse degli Usa al governo di Kigali

di Valentino De Bernardis –

thomas greenfield lindaMantenendo fede ai diversi impegni presi durante i sette anni del suo mandato, l’amministrazione Obama torna a guardare con maggiore interesse, alle diverse tensioni politico-sociali che attraversano l’africa sub-sahariana. Mercoledì 10 febbraio, durante un’audizione al Senate Foreign Relation Committee, due esponenti di rilievo della diplomazia statunitense hanno lanciato, per la prima volta, accuse circostanziate al governo ruandese circa la messa in opera di “attività destabilizzanti” nel vicino Burundi.
Una presa di posizione importante da parte di due figure vicine ad Obama, che però al momento non fanno prefigurare successivi passi ufficiali da parte di Washington, trovandosi il paese a poco più di sei mesi dalle elezioni presidenziali. Thomas Perriello, dal 2015 inviato speciale degli Stati Uniti nella regione dei Grandi Laghi, e Linda Thomas-Greenfield, assistente del Segretario di Stato per gli affari africani dal 2013, hanno delineato il quadro di una situazione esplosiva, una inquietante escalation degli eventi in Burundi in cui si possono rintracciare i semi di una futura guerra civile, sottolineando la necessita di agire immediatamente, per evitare che gli attori in campo possano trovarsi in una posizione di “ponti bruciati” alle spalle, e costretti a prendere decisioni dagli esiti imprevedibili.
Nella realtà dei fatti il Burundi vive una situazione di forte instabilità da quando lo scorso aprile il presidente Pierre Nkurunziza aveva annunciato la volontà di correre alle elezioni presidenziali per un terzo mandato, nonostante il limite di due mandati consecutivi imposti dalla costituzione. Situazione ulteriormente esacerbata dalla decisione dalla Corte Costituzionale di accettare la candidatura del presidente uscente (sotto forte pressioni e minacce di morte come testimoniato da uno dei giudici della Corte, Sylvere Nimpagaritse), fino al tentativo di colpo di stato fallito, il ritorno da vincitore di Nkurunziza a Bujumbura, e dalla dura repressione messa in atto dalle forze governative nel mese di dicembre, con un preoccupante ritorno alle fosse comuni, in un paese dove le ferite e la memoria della guerra civile è ancora viva (come testimoniato da Amnesty International attraverso foto satellitari).
Oltre all situazione testé citata, l’intervento dei due diplomatici americani alla Commissione Senatoriale ha toccato però un altro punto, se possibile  ancora più all’armante, e cioè l’ingerenza del vicino Ruanda nel fomentare la rivolta armata contro il governo in carica.
Nonostante il paese difatti abbia una lunga tradizione di ospitare rifugiati circa 75.000 rifugiati da oltre 20 anni della Repubblica Democratica del Congo, e dal 2015 circa 70.000 rifugiati burundesi, il suo ruolo nella regione dei Grandi Laghi inizia ad assumere contorni sempre meno chiari. Se da una parte essa collabora strettamente con l’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati per il sostentamento e la cura di queste persone, dall’altro ci sono prove sempre più evidenti di un coinvolgimento diretto di Kigali nel supportare, attraverso addestramento militare sul suo territorio, le forze di opposizione armata del Burundi.
Queste sono state le denunce fatte anche dai due diplomatici statunitensi, che supportati nelle loro affermazioni da un rapporto datato 15 gennaio 2015 (rif. S/AC.43/2016/GE/OC.2) del Gruppo di Esperti sulla Repubblica Democratica del Congo (RDC) al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, hanno chiesto al Senato statunitense di prendere una posizione ufficiale sul tema, ed evitare che i paesi interessati possano tornare a vivere una nuova stagione di violenze e massacri. All’interno del suo mandato di monitorare il miglioramento della situazione politico-sociale e l’eventuale perpetuarsi delle violenze in RDC, come stabilito dalla risoluzione 2198 (gennaio 2015), il Gruppo di Esperti ha raccolto numerose testimonianze di azioni di reclutamento e addestramento delle forze militari ruandesi tra le fila dei rifugiati burundesi.
Sempre secondo le testimonianze il teatro del reclutamento sarebbe il campo profughi di Mahama (distretto di Kirehe a circa 270km da Kigali, che offre rifugio a circa 44.000 persone), durante il periodo maggio-giugno 2015 e avrebbe portato alla formazione di quattro compagnie di cento unità comprendenti anche bambini.
Come era logico  che accadesse, non si è fatta attendere la reazione del governo di Kigali, che forse in modo scomposto venerdì 12 febbraio ha annunciato l’intenzione di procedere immediatamente alla ricollocazione di tutti gli sfollati burundesi presenti sul suo territorio presso altri paesi. Minacce che se attuate andrebbero a mettere nel caos l’intera regione dei Grandi Laghi e non solo.
Qualora le accuse nei confronti di Kigali dovessero trovare maggior fondamento in nuove testimonianze o prove, sarebbe riduttivo ridurre le motivazioni ruandesi ad una mera questione di odio etnico tra i due paesi, piuttosto sarebbe interessare capire quale sia il reale disegno politico di Kagame. Un Burundi destabilizzato e impegnato in una guerra civile perenne non gioverebbe di certo al Ruanda, che invece si vedrebbe solamente aumentare la pressione dei rifugiati sui suoi confini.
In ultimo, la presa di posizione della diplomazia statunitense testimonia come ormai i rapporti tra i due storici alleasi siano sempre più sfilacciati, e gli U.S.A potrebbero guardare ad altri governi per assicurarsi il controllo strategico sulla regione. Inoltre, i rapporti potrebbero addirittura peggiorare ulteriormente qualora Kagame dovesse (come pare) proseguire nel suo intento di cercare un nuovo mandato elettorale nel 2017, non prendendo in considerazione gli inviti di Washington a farsi da parte e portare il paese ad una completa maturazione democratica.

@debernardisv
Le opinioni espresse in questo articolo sono a titolo personale.

Nella foto: Linda Thomas-Greenfield.