Siamo tutti… occidentali

di Giovanni Ciprotti –

bruxelles candele per attentatoLe bombe all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles hanno di nuovo insanguinato l’Europa. Come era già accaduto dopo la strage di Parigi del 13 novembre, le prime reazioni sono state di dolore per i morti e di solidarietà per il popolo belga.
Siamo tornati a tingere dei colori nazionali del Paese colpito i monumenti delle capitali europee; pronunciamo, o semplicemente pensiamo, la frase che abbiamo ascoltato tante volte, a partire dalla strage di Parigi alla redazione di Charlie Hebdo: “je suis …”. Oggi ci sentiamo belgi, ieri ci dichiaravamo francesi. Ma nel 2005, dopo gli attentati a Londra, ci sentimmo londinesi; e l’anno precedente madrileni, come reazione ai quasi duecento morti per le bombe nei treni spagnoli; nel 2001, dopo il crollo delle Torri Gemelle, tutto il mondo si sentì americano; per sottolineare il sostegno morale agli Stati Uniti si scelse, aggiornandola ai tempi, la famosa frase pronunciata nel 1963 da John Fitzgerald Kennedy davanti al Muro di Berlino: “ich bin ein Berliner”.
Tuttavia non ci siamo sentiti nigeriani, né libanesi, né tunisini, né algerini, quando quei Paesi sono stati sconvolti da attentati non meno sanguinosi di quelli che hanno colpito Parigi e Bruxelles. Il perché è difficile da ammettere, ma anche da nascondere: siamo e ci sentiamo innanzitutto occidentali. E quindi se una minaccia terribile e spietata incombe sulla società francese, britannica o statunitense e mette a repentaglio quello stile di vita, percepiamo lo stesso pericolo per la nostra vita quotidiana. Una strage in una moschea di Tripoli o in un centro commerciale di Beirut ci fa fremere di sdegno, ma non ci trasferisce la medesima sensazione di vulnerabilità provata dopo la tragedia del 13 novembre scorso o di ieri a Bruxelles.
E la paura nello scoprirsi bersagli indifesi a casa propria fa scattare l’istinto di sopravvivenza e tutti i meccanismi che ne conseguono: l’individuazione del pericolo e del nemico e l’attuazione delle prime misure di autoprotezione dettate dall’emozione. Successivamente si cerca di capire perché è successo e, soprattutto, si tenta di immaginare cosa fare perché non accada di nuovo. Quest’ultimo compito ricade soprattutto sui governi e sulle istituzioni, che però non possono, o non dovrebbero, prendere decisioni che non siano in sintonia con la pubblica opinione. Sintonia che non è affatto scontata né sempre ricercata da chi ha la responsabilità di decidere ed agire: basti pensare alla grande mobilitazione che a livello mondiale si oppose, senza tuttavia riuscire a condizionare gli eventi, alla invasione dell’Iraq decisa nel 2003 dal presidente statunitense George W. Bush.
La ricerca della strada da percorrere non può prescindere dall’analisi della situazione e dal tentativo di capire il perché delle cose. La tentazione di semplificare è forte e spesso abilmente sfruttata da forze politiche e da governi: le prime in cerca di facili consensi, i secondi per compattare l’opinione pubblica attorno alle scelte politiche fatte. Semplificare può significare ridurre la questione a “noi e loro”, ad uno scontro di civiltà che pone gli occidentali su un fronte e il resto del mondo sull’altro, ad una guerra inevitabile tra confessioni religiose dai principi inconciliabili, oppure allo slogan più abusato negli ultimi quindici anni: “loro” vogliono semplicemente distruggere il nostro stile di vita.
Forse è vero. Ma è la stessa argomentazione che ai tempi della Guerra fredda animava il dibattito tra le società del cosiddetto Primo mondo: loro, i sovietici, i comunisti, vogliono sovvertire (con la violenza) le nostre istituzioni e le nostre società liberal-democratiche. C’era un fondo di verità in quell’assunto, soprattutto nel periodo staliniano. Ma per fronteggiare quel pericolo, reale o presunto che fosse, l’occidente ha sostenuto regimi dittatoriali e sanguinari in Asia, in Africa e in America Latina, purché marcatamente anti-comunisti e non ostili agli interessi economici occidentali e ne ha abbattuti altri perché considerati dannosi per i propri interessi.
E’ accaduto in Cile con il generale Pinochet, in Iran con lo scià Reza Pahlavi, in Guatemala con la destituzione di Jacobo Arbenz, in Iraq con Saddam Hussein, in Vietnam del Sud con Ngo Dinh Diem, ad Haiti con il regime Duvalier.
E’ accaduto a Cuba, dove oltre alla applicazione dell’embargo gli Stati Uniti hanno per decenni cercato di liquidare il regime di Castro con sabotaggi, incendi delle coltivazioni e tentativi di assassinare il leader cubano, con la motivazione che l’isola caraibica costituiva una minaccia per il colosso nordamericano. Era vero il contrario, ma nell’atmosfera della Guerra fredda era relativamente semplice trasformare un non-amico in un minaccioso nemico.
Le tragedie che almeno dal settembre 2001 in poi hanno portato il terrore nelle principali città dei Paesi occidentali sono reali ed è giusto che i governi si adoperino per garantire l’incolumità dei propri cittadini.
Cittadini che però non dovrebbero pensare che l’Occidente sia esente da responsabilità per il diffondersi di questi atti terroristici.
Per secoli, prima con gli imperi coloniali e successivamente durante la contrapposizione tra mondo capitalistico e modello sovietico, l’occidente ha imposto o cercato di imporre, spesso con le armi, le proprie condizioni e il proprio modello di società in tutti i continenti; ha tracciato fantasiosi confini sulla sabbia come se quell’elemento fosse sufficiente per far nascere nazioni secondo il nostro modello culturale; ha impedito che popoli, durante il complesso processo di decolonizzazione, decidessero autonomamente come costruire la propria società; ha tenuto in piedi regimi autoritari senza alcun consenso locale solo perché garanti degli interessi economici occidentali sul posto; è intervenuto nelle vicende internazionali con la presunzione di sapere più e meglio dei diretti interessati come risolvere i problemi in terre lontane, ultime in ordine cronologico la campagna di “esportazione della democrazia” nel decennio scorso e gli interventi militari euro-americani nel Nordafrica in occasione delle cosiddette primavere arabe di pochi anni fa. E in termini storici stiamo parlando di oggi, non di ieri.
Le terribili stragi alle quali rischiamo di doverci abituare per molto tempo a venire devono essere condannate senza tentennamenti e i nostri sistemi di intelligence devono poter operare per ridurre il rischio che si verifichino altri attentati. Ma sarebbe opportuno riflettere sulle azioni esterne, purtroppo quasi sempre di tipo militare, che l’Occidente intende mettere in pratica per fronteggiare questi fenomeni. E più ancora dovremmo riflettere, proprio oggi che ci sentiamo violati nel nostro stile di vita quotidiana e ci apprestiamo, giustamente, a difenderlo con le unghie e con i denti, sulle infinite occasioni nelle quali siamo stati noi, occidentali, ad irrompere in casa altrui con arroganza e prepotenza per costringere altri popoli a vivere secondo il nostro modello nella presunzione che fosse superiore al loro.