Ucraina. I 13 miliardi (in armi) da Washington e la questione della “neutralità”

di Dario Rivolta * –

Chi ha partecipato ad una guerra o ha più semplicemente visto qualche film di genere sa che può capitare che un gruppo di combattenti sia sacrificato per consentire al resto dell’armata di ottenere qualche tipo di vantaggio. Questa tattica, che può significare anche la morte di tutti i “sacrificati”, può essere decisa per più di uno scopo: consentire al grosso della forza armata di ritirarsi su posizioni più opportune, concentrare l’attenzione del nemico in una zona per poi attaccarlo da un’altra o semplicemente di guadagnare tempo per favorire altro tipo di operazioni. In tutti i casi, tale decisione implica che alcuni si immolino per il vantaggio di altri.
L’immagine evocata potrebbe essere proprio il caso di quanto sta accadendo oggi in Ucraina, e cioè che qualcuno incoraggi la resistenza dei soldati ucraini e degli abitanti delle città sotto attacco per altri scopi, pur sapendo di destinarli alla morte. Se questa fosse la lettura corretta si spiegherebbero il continuo invio di nuove armi ai resistenti l’aggressione e l’incoraggiamento che dall’occidente, e in particolare dagli Stati Uniti, continua ad arrivare ai politici di Kiev.
Quale sarebbe il vero scopo di questo sacrificio che implica un sempre maggiore numero di morti anche tra i civili ed una devastante distruzione di edifici e infrastrutture? Perché anche lo scorso mercoledì, pur ribadendo che non ci sarà un intervento diretto degli americani, il presidente Usa Joe Biden ha annunciato l’invio addizionale di 800 milioni di dollari in assistenza militare (solo una parte del pacchetto di aiuti all’Ucraina di 13 miliardi e 600 milioni di dollari)? Quest’ultima fornitura include 9mila sistemi anticarro, 800 sistemi antiaereo Stinger, 100 droni, 7mila armi individuali e 20 milioni di pacchetti di munizioni. Perché la UE ha deciso di “donare” all’Ucraina un altro miliardo di euro per l’acquisto di armi?
Tutti sembrano convinti che l’Ucraina sia comunque condannata alla sconfitta davanti alla preponderante forza militare russa. Perché continuare nel conflitto e non accettare una vera negoziazione che porti al più presto ad un concreto risultato?
Zhang Hong, un esperto dell’Accademia Cinese di Scienze Sociali, specializzato negli studi sull’Europa dell’est, sostiene che dietro l’Ucraina che negozia con la Russia ci sia Washington e che sia solo lì che si prendono le vere decisioni. Secondo questo studioso è “interesse degli Stati Uniti rallentare il progresso dei colloqui di pace in modo che la guerra duri più a lungo e causi alla Russia maggiori perdite economiche”. Chi condivide questa lettura pensa anche che il vero obiettivo degli Stati Uniti non sia tanto lo status dell’Ucraina, quanto ottenere la caduta di Putin, causata dal crescente malcontento popolare in Russia per il deteriorarsi delle condizioni economiche e per il crescente aumento di perdite di vite umane dei militari impiegati sul fronte.
Che questa interpretazione sia giusta o sbagliata, si può di certo constatare che, nonostante si siano tenuti già quattro incontri tra le due parti, un punto d’accordo sembra ancora molto lontano. C’è pure chi pensa che a voler rallentare le negoziazioni sia la stessa Russia poiché, a detta di costoro, il vero obiettivo di Vladimir Putin sarebbe l’inglobare l’Ucraina nella Repubblica Federale Russa e magari da lì continuare verso altri Paesi che furono parte dell’Unione Sovietica.
Ovviamente nessuno può conoscere con certezza quali siano i pensieri di Putin e del suo entourage, ma credere che queste siano le intenzioni russe sembra piuttosto improbabile. Occupare tutta l’Ucraina potrebbe non essere impossibile, ma mantenerne il controllo è tutt’altra cosa. Prima del 2014 meno del 25% della popolazione ucraina era favorevole all’ingresso nella NATO, nel dicembre 2021 lo era già il 58%. Prima dello scoppio della guerra il 50% si dichiarava disposto a resistere ad una possibile invasione russa e di loro il 33% lo avrebbe fatto con le armi mentre il 22% con mezzi non militari. La parte occidentale del Paese è sempre stata più pro-occidente, ma anche nella parte orientale, oggi più colpita dalla guerra, perfino molti dei filo-russi dopo aver subito morti in famiglia e aver visto distrutte le loro proprietà non è detto che sarebbero ancora ben disposti verso Mosca. In queste condizioni, come è immaginabile il controllo russo sull’Ucraina del futuro senza la continua permanenza di un enorme esercito e i costi relativi, sia politici che monetari, che implicherebbe? Al Cremlino non sono pazzi né illusi e sanno benissimo che, comunque vadano le cose, l’Ucraina dovrà restare uno Stato a sé stante. Anche l’idea che la Russia possa soltanto pensare di invadere, ad esempio, i Paesi Baltici già membri Nato senza che ciò provochi una immediata reazione militare della Alleanza Atlantica può soltanto essere frutto di una stupida propaganda, fatta circolare per alimentare le paure e i sentimenti anti-russi dell’occidente.
Il problema su cui sembrerebbe maggiormente essersi incagliata, almeno fino ad ora, la soluzione positiva dei negoziati, è la neutralità dell’Ucraina. Apparentemente lo stesso Zelensky avrebbe dichiarato la disponibilità del governo di Kiev di rinunciare all’ingresso nella Nato (va ricordato che l’obiettivo di adesione all’Alleanza è tuttora scritto nella Costituzione dl Paese, così come la volontà di far parte dell’Unione Europea). In realtà esistono almeno due tipi di “neutralità”. Quando la parte russa ha proposto che l’Ucraina possa diventare simile a ciò che furono durante la Guerra fredda Austria o Svezia, la risposta dei negoziatori di Kiev fu un rifiuto. Proposero in cambio una neutralità di “stile ucraino”. La neutralità austriaca è scritta nella loro Costituzione e prevede l’impegno perpetuo a rimanere fuori da qualsiasi conflitto, a non aderire ad alleanze militari e a non ospitare sul territorio nazionale basi militari straniere. Questa scelta (preferita dai russi) fu condizionata da un compromesso politico. Vienna si liberò dell’occupazione di Usa, Gran Bretagna, Francia e Urss successivamente alla Seconda guerra mondiale grazie alla firma, da parte delle potenze occupanti, del Trattato del 15 maggio 1955. Per la Svezia la situazione è differente. Quel Paese era neutrale da più di un secolo quando scoppiò la Seconda guerra mondiale e non partecipò al conflitto, né aderisce ora ad alcuna alleanza militare internazionale. Mantiene un proprio esercito ed ha adottato una “neutralità convenzionale” (armata) ma non necessariamente “permanente”.
Le ragioni addotte dagli uomini di Kiev per rifiutare entrambe le opzioni si basano sul fatto che, con questa invasione, la Russia avrebbe già tradito un accordo, detto Memorandum di Budapest del ’94, secondo il quale USA, Gran Bretagna e Russia davano garanzie di sicurezza all’Ucraina in cambio della rinuncia di quest’ultima a detenere il terzo arsenale nucleare del mondo. Gli ucraini non vogliono ripetere l’errore di dare fiducia ad un qualche accordo che, senza ulteriori garanzie, possa essere smentito nei fatti in un prossimo futuro. La loro proposta, rifiutata dai russi per ovvi motivi, prevederebbe tre cose. La prima: la rinuncia all’adesione alla NATO ma la sottoscrizione di un trattato con Stati Uniti, i Paesi confinanti e alcune potenze occidentali che si impegnino a difenderla in caso di invasione. La seconda: che l’Ucraina mantenga un forte esercito attrezzato di armi difensive fornite dall’occidente insieme ad addestramento militare e assistenza da parte di quest’ultimo. La terza: che, mentre è disponibile a riconoscere la Crimea come territorio russo, chiede che tutto il Donbass ritorni a far parte a pieno titolo dell’Ucraina stessa. In cambio, dopo un eventuale referendum locale organizzato dalle Nazioni Unite, potrebbe consentire una qualche autonomia alla regione e la protezione dei diritti degli ucraini russofoni che vivono in quei territori.
Da parte russa la “neutralità” viene intesa come un totale disarmo, la rinuncia definitiva a far parte della Nato, il riconoscimento della Crimea russa e la “denazificazione” (cioè l’impossibilità dell’esistenza di movimenti filo-nazisti quali Svoboda, il Battaglione Azov e similari), i diritti della popolazione di lingua russa e lo status della lingua russa. È possibile, ma questa è una supposizione personale, che lo status del Donbass e il tipo di rapporti con l’Unione Europea possano essere oggetto di negoziazione purché venga riconosciuta un’autonomia amministrativa alle regioni oggi “separate”.
Comunque vadano le cose e qualunque sia l’accordo che potrà essere raggiunto, resterà il problema di come e chi pagherà la ricostruzione delle infrastrutture e delle fabbriche ucraine andate distrutte nel conflitto. Sembra improbabile che i russi possano accettare di farsene carico anche solamente in parte, e ciò considerando le difficoltà economiche che la Russia ha sofferto e soffre a causa delle sanzioni occidentali. È invece più probabile che siano l’Europa e gli Stati Uniti a dover contribuire alla ricostruzione e, considerata la dimensione del Paese, di certo non sarà cosa da poco per la già sofferente economia europea.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.