Ucraina. Mahbubani, ‘avete voluto la guerra? Combattetevela, ma lasciateci fuori!’

L’errore (malevolo) di aver fatto carta straccia degli accordi di Minsk.

di Dario Rivolta * –

Kishore Mahbubani è un diplomatico e analista geopolitico singaporiano di origini indiane che fu anche presidente del Consiglio di sicurezza dell’Onu nel 2001 e nel 2022. In Italia non è molto conosciuto ma la rivista di politica internazionale americana Foreign Policy lo ha inserito nella lista dei cento più grandi intellettuali del mondo e il Financial Times lo considera tra i cinquanta più importanti personaggi che possono contribuire al dibattito sul futuro dell’economia capitalista. In America è stato eletto membro della prestigiosa Accademia delle Arti e delle Scienze. A cavallo tra mondo occidentale e Asia, lo si può giustamente considerare come un osservatore neutrale sulle questioni che riguardano l’Europa.
A proposito della guerra in Ucraina ecco cosa scrive: “Questo è un conflitto che avrebbe facilmente potuto essere evitato se gli europei avessero mostrato un po’ di strategico senso comune. Loro non hanno mostrato nulla di tutto ciò nel cercare di fare entrare l’Ucraina nella Nato. L’Europa adesso ne paga il prezzo… È la vostra stupidità (dei leader europei, ndr.) che ha causato questo conflitto, adesso combattetelo, noi non vogliamo esserne implicati“.
Nonostante la stima ed il rispetto che gli sono tributati mondialmente, è difficile che, visto il pensiero unico dominante nella nostra stampa e nei nostri politici, qualcuno abbia il coraggio di citare Mahbubani e di interrogarsi su quale senso abbiano le sofferenze energetiche cui l’Europa è già e sarà sempre più sottoposta. Eppure, quanto scrive quell’osservatore imparziale dovrebbe essere evidente per tutti.
In realtà, senza tuttavia sforzarsi più di tanto, Francia e Germania cercarono di prevenire il conflitto ma finirono anch’essi col cedere al volere proveniente da oltreatlantico e alla protervia degli ultimi due governi installatisi a Kiev.
Il tentativo fu intrapreso a Minsk grazie ai due accordi sottoscritti dai soggetti coinvolti nella diatriba ucraina.
Dopo il colpo di stato a Kiev nel febbraio 2014 e la conseguente ri-annessione della Crimea alla Russia le ostilità cominciarono subito nel Donbass. Il 5 settembre rappresentanti di Russia, Ucraina e delle auto-costituitesi repubbliche di Lugansk e Donetsk si riunirono al President Hotel a Minsk sotto la supervisione dell’OSCE. Dopo accese discussioni, concordarono quanto segue:
– Un immediato cessate-il-fuoco
– Controllo continuativo effettuato dell’OSCE sul non uso di armi
– Creazione di una zona di sicurezza monitorata dell’OSCE al confine tra Russia e Ucraina.
– Rilascio immediato reciproco di tutti i prigionieri
– Adozione da parte del Parlamento di Kiev di una legge che rendesse non perseguibili gli eventi connessi alla ribellione nel Donbass.
– Continuazione del dialogo tra le parti
– Azioni per affrontare la crisi umanitaria creatasi nel Donbass
– Adozione di un programma per il risanamento economico del Donbass e rimessa in funzione di tutte le infrastrutture vitali distrutte dall’artiglieria ucraina.
Inoltre, particolarmente importanti perché qualcosa di simile è ciò che ha consentito la pacificazione del nostro Alto Adige all’inizio degli anni ‘70:
– Decentralizzazione amministrativa in Ucraina con l’adozione di una legge costituzionale che riconoscesse lo status speciale della regione Donbass
– In accordo con tale legge, svolgimento di elezioni locali in quella regione.
Il documento fu firmato dall’ambasciatore russo in Ucraina, dall’ex presidente ucraino Leonid Kuchma (appositamente delegato dal governo di Kiev) dai leader secessionisti e da Heidi Tagliavini, un diplomatico svizzero in rappresentanza dell’OSCE. Immediatamente a seguito della firma, il presidente russo Vladimir Putin fece un appello ai leader delle unità armate del Donbass affinché cessassero le ostilità. La stessa cosa fece il presidente ucraino Poroshenko nei confronti dell’esercito ufficiale.
Purtroppo il cessate-il-fuoco non cominciò mai e si stima che in soli due mesi rimanessero uccisi circa un migliaio di persone nella zona di conflitto.
Fu allora che intervennero anche Francia e Germania che spinsero per un nuovo round di negoziati. Questo ebbe luogo il 12 Febbraio 2015 e vide la presenza anche dei rappresentanti ufficiali dei due Paesi europei. Oltre a confermare tutto quanto già concordato nel primo incontro di Minsk, si stabilì anche:
– Ritiro da parte di entrambi i contendenti di artiglieria di calibro dai 100 millimetri in su per almeno 50 chilometri
– Lo stesso ma con arretramento di 70 chilometri per i sistemi di lancio missilistico multiplo
Arretramento di 140 chilometri di ogni sistema di missili tattici.
Il ritiro di queste armi dalla linea del fronte doveva essere effettuato entro 14 giorni dalla firma. Il 17 febbraio il Consiglio di sicurezza dell’ONU fece propri gli accordi sottoscritti a Minsk 2, ufficializzandoli e legittimandoli.
Purtroppo una volta di più, e nonostante l’impegno ufficiale preso dalle parti, gli scontri locali continuarono.
Naturalmente ognuno accusò l’altro di essere responsabile del non adempimento delle condizioni concordate e, mentre i due confliggenti non ritiravano le armi, il parlamento di Kiev rinunciò a fare la sua parte non accettando la possibilità, seppur ufficialmente ratificata dal proprio governo, di predisporre la modifica costituzionale che attribuiva al Donbass lo stato di regione autonoma,
Il presidente Poroshenko inviò al parlamento una prima proposta di modifica costituzionale in quel senso ma la Rada la rifiutò. Ne inviò allora una seconda, probabilmente modificata per meglio accontentare i settori nazionalisti presenti in Parlamento e in alcune zone del Paese, ma anche questa seconda bozza non fu mai messa in discussione in discussione. Nel frattempo lo stesso Poroshenko, pacifico nella forma istituzionale, si lasciava andare a discorsi pubblici pieni di insulti contro la minoranza russa presente in Ucraina e favorì la spaccatura della Chiesa ortodossa che ubbidiva al Patriarca di Mosca.
Durante la campagna elettorale per le nuove elezioni presidenziali Zelensky promise che avrebbe cercato di risolvere positivamente il conflitto con i secessionisti e i veri pacifisti si aspettavano che la modifica costituzionale lungamente attesa venisse attuata. Tuttavia non risulta da nessuna parte che il nuovo presidente abbia mai nemmeno tentato di sottoporre al Parlamento un testo in quella direzione o di invitarlo a redarne uno. Quella modifica costituzionale avrebbe certamente calmato gli animi dei secessionisti e, molto probabilmente, impedito l’inizio della guerra successiva. Al contrario, poco dopo essere stato eletto Volodymyr Zelensky provvide a mettere fuori legge tutte le televisioni e i giornali in lingua russa e a proibire su tutto il territorio l’uso di quell’idioma. Poco più tardi fece espellere dalla Rada i deputati considerati filo-russi.
In un suo noto scritto Putin sostenne che l’Ucraina come Stato non era mai esistita prima della rivoluzione sovietica e in questo aveva ragione. Dove però si sbagliava era nel sostenere che gli ucraini erano e si sentivano tutti russi. In verità la popolazione che abita il territorio ucraino è sempre stata fortemente divisa tra chi russo era e si sentiva davvero tale (circa il 30% della popolazione totale) e altri che, per motivi storici e culturali si sentivano invece anti-russi e non avevano dimenticato, identificando genericamente il fatto con il governo di Mosca, le porcherie e gli omicidi di massa commessi dai comunisti sovietici durante i primi anni dell’esistenza dell’URSS. Nella parte occidentale del Paese e nelle maggiori città del nord nonostante il russo fosse l’unica lingua ufficiale la gente aveva continuato a parlare ucraino nella vita di tutti i giorni e a sentire i russi come occupanti. Naturalmente era, ed è, ben diversa la situazione in Crimea, nel Donbass, a Odessa e in poche altre località ove la Russia continua a essere percepita dalla maggioranza come l’unica e vera radice storica.
L’Ucraina non è l’unico Stato in cui popoli con tradizioni e storie diverse riescono a convivere, seppur con sporadiche schermaglie, e l’esempio di ciò che noi italiani abbiamo fatto in Alto Adige è la dimostrazione che una soluzione è sempre possibile. Purché non ci sia qualche forza esterna, magari molto potente, che volutamente cerca di sobillare i conflitti e impedisce che si arrivi a un qualche compromesso. In questo caso, i più puri nazionalisti che pur si credono in buona fede non sono che carne da sacrificare a favore di interessi estranei e spesso anche geograficamente lontani.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.