Ucraina: perché e come tutto è iniziato

di Dario Rivolta * –

A differenza di quanto succede in Italia, negli Stati Uniti è sempre esistito un vero e proprio dibattito sui temi politici. Vi partecipano attivamente esponenti di think tank, docenti universitari e perfino, strano a dirsi, anche alcuni uomini politici. Tutti i temi più importanti della politica internazionale, del rapporto con gli alleati e con i nemici, il ruolo che l’America ha o deve svolgere nel mondo sono continuamente oggetto di riflessioni più o meno acute. Purtroppo, anche lì non sempre le scelte di chi governa tengono in dovuto conto le riflessioni scaturite da quei dibattiti e, a volte, alcune decisioni sono prese più in base agli interessi del momento, magari elettorali, che a una visione lungimirante.
Anche il tema di come relazionarsi con la Russia dopo la caduta dell’Unione Sovietica è stato ampiamente dibattuto e ne fanno testo la miriade di libri e articoli su riviste specializzate. L’accesso a documenti desecretati dopo un certo periodo di tempo aiuta frequentemente gli analisti a capire come e perché siamo arrivati a questo punto. Non bisogna comunque mai dimenticare che, a fianco di politologi più o meno colti, allo staff della Casa Bianca e al Parlamento americano hanno costantemente una loro (per nulla irrilevante)
influenza gli interessi portati avanti dalle varie lobby economiche.

Ciò che è comunque sempre stata una costante nel pensiero e negli obiettivi delle varie presidenze che si sono succedute fino ad oggi è che la supremazia mondiale americana e il benessere economico legato tra l’altro alla dominanza del dollaro sono sempre state il principale obiettivo. Alleati o non alleati, tutto doveva e deve essere funzionale al mantenimento di quel ruolo.
L’analisi-cronistoria che segue non vuole diventare una giustificazione di quanto successo, né da una parte né dall’altra. Al contrario, cerca di capire come e perché si sia arrivati ad una guerra e ad una contrapposizione totale tra l’Occidente e la Russia che, comunque vada, segneranno negativamente il futuro politico ed economico dell’Europa.
Quando Gorbaciov, conscio che il sistema sovietico si stesse disfacendo, aprì ad un nuovo tipo di dialogo con l’occidente per cercare, riducendo le spese per gli armamenti, di salvare il salvabile, tutti i politici più avveduti in Europa e negli Stati Uniti capirono che quella che appariva come una evidente vittoria avrebbe anche potuto trasformarsi in un nuovo pericoloso fattore di instabilità. Al momento del crollo del muro di Berlino, l’allora presidente Bush “padre” chiese a Margaret Thatcher cosa pensasse convenisse fare nei confronti del Patto di Varsavia e della Nato. La “dama di ferro” rispose: “la Nato deve rimanere e così anche il Patto di Varsavia”. Il motivo per cui la premier britannica voleva “salvare” la coalizione “nemica” era che in mezzo all’umiliazione del crollo sovietico, mantenere il Patto sarebbe stato almeno una “foglia di fico per Gorbaciov”. Aggiunse che non era il momento di mettere in discussione i confini europei.
La pensava un po’ diversamente il primo ministro tedesco Kohl che ambiva alla riunificazione della Germania e il suo ministro degli esteri Hans Dietrich Genscher propose a Bush che la Nato ed il Patto di Varsavia creassero un composto di sicurezza comune collettiva all’interno della quale, col tempo, le due alleanze “potrebbero finalmente dissiparsi”. Alcuni ex dissidenti dei Paesi già comunisti suggerirono addirittura un obiettivo ancora più audace: la smilitarizzazione completa di tutta la regione centro orientale dell’Europa.
Purtroppo per gli auspici di questi leader europei, una qualunque delle soluzioni prospettate avrebbe inficiato il ruolo guida che gli Stati Uniti mantenevano da cinquant’anni sopra l’Europa e ciò era, evidentemente, contrario agli interessi americani. Il 2 Febbraio 1990 Stati Uniti e Germania ovest discussero su come fare per ottenere da Mosca l’autorizzazione alla riunificazione tedesca. Genscher disse esplicitamente di essere certo che Mosca non l’avrebbe permessa salvo garantire a Gorbaciov che ciò non avrebbe significato un allargamento ad est della Nato. Baker si dichiarò d’accordo e quella traccia di lavoro fu portata dal segretario di stato americano a Mosca stabilendo che “la giurisdizione della Nato non sarebbe andata oltre la linea marcata dal fiume Oder” (Not one inch eastward). In altre parole, Baker garantì che sia la riunificazione tedesca sia la fine del patto di Varsavia non avrebbe in alcun modo attentato alla sicurezza nazionale dell’allora Unione Sovietica.

Tuttavia, quello non era il pensiero condiviso da tutto lo staff presidenziale americano e lo stesso Baker dovette informare gli alleati europei che Washington non si riteneva vincolata da quell’accordo che rimase soltanto verbale. Nell’Ottobre del ’91, in una conversazione tra Bush e l’allora segretario generale della Nato Manfred Worner, quest’ultimo espresse l’opinione che perfino i Paesi Baltici, se avessero espresso il desiderio di entrare nell’Alleanza, dovevano essere accolti. Nel frattempo, una iperinflazione e una corruzione sempre più diffusa stavano indebolendo il potere politico a Mosca. Eltsin, che era stato determinante nella dissoluzione dell’Unione Sovietica e che credeva sinceramente di poter guidare il Paese verso una trasformazione democratica divenne sempre più preda dei vari potentati economici spesso di origine criminale (i famosi oligarchi) che avevano costruito le loro fortune anche con l’ausilio di potenti multinazionali straniere e che avevano poi esportato in banche estere gran parte dei loro profitti. La debolezza politica sempre più evidente in Russia aumentò la golosità dei falchi americani sia economici che politici e qualcuno cominciò a pensare che, così come si era dissolta l’Unione Sovietica, anche l’enorme Repubblica Federale di Russia potesse scindersi in tanti nuovi piccoli Stati. Ciò avrebbe significato per gli Stati Uniti la definitiva sicurezza di restare l’unica super potenza di scala globale e avrebbe consentito a molte multinazionali d’oltre oceano di mettere le mani con più facilità sulle enormi ricchezze di materie prime di tutti i generi presenti soprattutto nelle regioni oltre gli Urali.
In realtà sia gli Stati Uniti che l’Europa, nonostante la dichiarata volontà di trovare un accordo di collaborazione con la Russia, non hanno mai rinunciato all’idea di “contenerla”. Questa intenzione non si manifestò subito attraverso un immediato allargamento della NATO ad est ma, anche per l’opposizione e i dubbi suscitati da una parte dell’establishment americano, nel gennaio 1994 si pensò ad una sorta di semi-allargamento cui fu dato il nome di Partnership for Peace (PfP). L’intenzione dichiarata era che i Paesi aspiranti ad entrare nella NATO potessero ricevere un addestramento militare e partecipare ad esercitazioni militari in comune. Tale soluzione permetteva di “rassicurare” i futuri membri senza dover tracciare immediatamente una nuova “cortina di ferro”. Che si trattasse però di una soluzione solo temporanea è oggi molto più chiaro se si ripensa a quanto il presidente Clinton disse a Kohl il 31 gennaio dello stesso 1994: “L’Ucraina è il fulcro dell’intera idea… sarebbe una catastrofe se l’Ucraina crollasse a causa dell’influenza russa o a causa dei nazionalisti militanti all’interno dell’Ucraina”. (questo e altri virgolettati sono citati da M.E. Sarotte in “Come Washington ha perso la pace post-sovietica” su Foreign Affairs di nov.-dic. 2021).
In seguito, aggiunse che uno dei motivi per cui tutti gli Stati del Patto di Varsavia furono disposti ad accettare il PfP è perché capirono che poteva fornire uno spazio all’Ucraina in un modo che la NATO non poteva fare. La genialità di quella soluzione fu che, almeno formalmente, si aprì anche alla Russia la possibilità di parteciparvi.
Già nel 1996, tuttavia, per ragioni di politica interna americana e per le pressioni costanti di Polonia e Repubblica Ceca, Clinton annunciò che il primo allargamento della NATO sarebbe stato confermato subito.
Il suo Segretario alla Difesa, William Perry, per nulla d’accordo con quella accelerazione, minacciò di dimettersi ma alla fine non lo fece. Più tardi, nel 2015, avrebbe dichiarato di essersi pentito per “non aver combattuto in modo più efficace per il ritardo della decisione della NATO”.
Nei fatti il PfP fu emarginato e i russi capirono che si era trattato solo di uno stratagemma. Ciononostante, nel 1996 la Russia appoggiò la missione NATO in Bosnia per applicare l’accordo di pace che mise fine alla guerra civile e l’anno dopo, sulla scia di questa prima collaborazione, fu firmato il “Founding Act on Mutual Relations, Cooperation, and Security”. Tale accordo costituì un primo impegno reciproco ad astenersi da minacce e uso della forza.
Nel giugno 1997 l’amministrazione Clinton fece sapere che “non considererà il processo di allargamento della NATO come concluso a meno che o fino a quando le aspirazioni degli Stati Baltici non saranno state soddisfatte”. L’interesse di questi ultimi fu accontentato nell’aprile 1999 ed Estonia, Lettonia e Lituania furono ufficialmente riconosciuti come membri a tutti gli effetti.

In quegli stessi anni la Russia era preda di una forte crisi economica e finanziaria e non poté fare altro che protestare. Fu allora che la Nato lanciò la guerra contro la Serbia. Quando la Russia aveva più bisogno di supporto, i falchi americani pensarono invece di approfittare di quella sua debolezza.
A questo punto, una piccola digressione. La Nato, nel frattempo, aveva deciso di non essere più solamente un’alleanza difensiva, come previsto dal proprio Statuto nel momento della sua creazione, ma di farsi carico del “diritto di ingerenza” per motivi umanitari anche in Paesi terzi, per quanto non direttamente minacciosi.
La storia ha ampiamente dimostrato che la ragione del conflitto in Jugoslavia, ufficialmente un presunto genocidio dei Kossovari ad opera dei serbi, fu in realtà solo un protrarsi di atti di prepotenza e di repressione nei confronti della popolazione di quella regione. Violenze, tra l’altro, favorite dalla reazione alla guerriglia iniziata da un locale gruppo criminale, dichiaratamente “patriottico”, l’UCK, guidato da colui che il New York Times con un editoriale in prima pagina definì essere un “notorio criminale”. Come confermato in una conversazione privata dall’allora nostro ministro degli esteri Lamberto Dini, l’incontro convocato a Rambouillet (Francia) con lo scopo ufficiale di trovare una soluzione alla crisi, fu nei fatti una “trappola” con condizioni inaccettabili per qualunque governo di Belgrado. Risultato: pur senza alcun avallo dell’ONU la Nato cominciò i bombardamenti sulle città serbe, incurante di quali potessero essere le vittime civili. In poche settimane Milosevic fu costretto alla resa. Come voluto dagli strateghi americani e contro le intese passate che avevano ribadito che i confini dei Paesi europei non dovessero essere modificati, il Kossovo fu formalmente staccato dalla Serbia, dichiarato indipendente e gli americani ne approfittarono per stabilirvi una propria base militare (americana, non Nato) che resta tuttora la più grande in tutto il territorio europeo.
La Russia di Eltsin si dichiarò fortemente contrariata e offesa da quella guerra ma la sua debolezza finanziaria e le forze armate demoralizzate e disorganizzate non consentirono altro che l’avanzare niente più di formali proteste.

Il 19 Novembre 1999 in un vertice dell’OSCE tenuto a Istanbul le trascrizioni statunitensi dell’incontro privato tra Clinton e Eltsin riferiscono che Eltsin era molto arrabbiato da urlare contro l’americano: “Gli Stati Uniti non sono in Europa. L’Europa dovrebbe essere affare degli europei.” Al che Clinton rispose. “Non credo che gli Europei lo vorrebbero molto”. A quel punto Eltsin si alzò urlando; “Bill, l’incontro è finito… questo incontro è andato avanti troppo a lungo”.
La guerra per il Kossovo pose fine ad un periodo, gli anni ’90, in cui era sembrato tra alti e bassi che il rapporto tra i due Paesi potesse veramente portare ad un nuovo periodo di pace e ne avevano fatto testo gli accordi per il disarmo nucleare sottoscritti in quegli anni.
Nel 2000 Putin divenne Presidente della Federazione Russa e, anche se a quel momento i rapporti non erano giù più ottimali, il nuovo leader del Cremlino cercò di invertire la rotta negativa e fece numerose dichiarazioni a favore di una stretta collaborazione con l’Europa e con la stessa NATO. Gli incontri personali con i leader europei e con i Presidenti americani (Clinton e Bush figlio) si moltiplicarono e si arrivò all’accordo di Pratica di Mare ospitato da Berlusconi. Vi parteciparono tutti i vertici dei Paesi NATO e nel documento congiunto si scrisse che “Come firmatari del Founding Act on Mutual Relations, Cooperation and Security, riaffermiamo gli obiettivi, i principi e gli impegni assunti allora: in particolare la determinazione a costruire insieme una pace duratura e inclusiva nell’area euro-atlantica in base ai principi di democrazia, sicurezza cooperativa e all’asserto che la sicurezza di tutta la comunità euro-atlantica sia indivisibile. Siamo convinti che la qualità della nuova relazione fra NATO e Russia fornirà un contributo essenziale al raggiungimento di questo obiettivo”. Fu perfino creato un Consiglio NATO-Russia, “lo strumento principale per migliorare le relazioni fra NATO e Russia”, cioè un’assemblea permanente di funzionari e militari incentrata sui temi della sicurezza e della cooperazione.

Purtroppo, nonostante le dichiarazioni ufficiali di collaborazione e di reciproco rispetto, lo spazio postsovietico cominciò a sperimentare un’ondata di rivoluzioni colorate. Apparentemente spontanee, ma in realtà “aiutate” da organizzazioni straniere.
Si cominciò in Georgia con la “rivoluzione delle rose” condotta da una forte coalizione di conservatori filo-occidentali diretti da Mikhail Saakashvili e Nino Burjanadze. Nel corso delle consultazioni elettorali del novembre 2003 i risultati ufficiali furono favorevoli al governo in carica, diretto da Shevardnadze, ma l’opposizione le considerò truccate e organizzò enormi dimostrazioni pacifiche nelle vie della capitale per protestare contro il governo ritenuto illiberale e corrotto. Shevardnadze si dimise il 23 novembre 2003, dopo due tese settimane di dimostrazioni, e fu sostituito come presidente ad interim da Burjanadze, presidente del parlamento.
Seguì la “rivoluzione arancione” in Ucraina (dicembre 2004- gennaio 2005), cominciata all’indomani delle elezioni presidenziali del 21 novembre 2004. I primi risultati videro in vantaggio il delfino dell’ex presidente Leonid Kuchma – Viktor Yanukovich considerato più filo-russo – ma furono contestati dallo sfidante Viktor Yushchenko che denunciò brogli elettorali e chiese ai suoi sostenitori di restare in piazza fino a che non fosse stata concessa la ripetizione della consultazione. A seguito delle proteste, condotte da un apparato di gruppi studenteschi e popolari in maniera non-violenta, la Corte suprema ucraina invalidò il risultato elettorale e fissò nuove elezioni per il 26 dicembre. Questa volta a uscirne vincitore fu proprio Yushchenko, leader designato della rivoluzione arancione, con il 52% dei voti contro il 44% del suo sfidante. Il nuovo presidente si insediò il 23 gennaio 2005.

Anche l’Asia non fu esente da sommovimenti popolari: nel 2005 una “rivoluzione” ebbe luogo in Kirghisia, ma già nel 2004 e nel 2005 si era tentata la stessa cosa (senza riuscirci) in Bielorussia.
In tutti questi casi un ruolo molto importante fu giocato da varie ONG, ufficialmente indipendenti ma sempre finanziate da denari americani (spesso, ma non sempre, anche da Soros), che agivano in quei Paesi con gli scopi dichiarati tra i più “innocenti”: formazione della burocrazia, spazio alla “società civile”, educazione alla democrazia. Naturalmente Radio Europa Libera (finanziata, oggi, dal Congresso americano e prima dalla CIA) e Voice of America hanno sempre continuato a garantire la necessaria e adeguata copertura mediatica.
Le Rivoluzioni Colorate hanno sempre avuto queste caratteristiche in comune:
1. il Paese viene dichiarato non libero da una o più delle organizzazioni internazionali americane;
2. gli USA e le altre organizzazioni internazionali allineate dichiarano di intervenire in nome del loro diritto-dovere di instaurare la democrazia;
3. questi movimenti, anche se minoritari, vengono presentati come il vero portavoce della volontà e degli
interessi di gran parte della popolazione;
4. le manifestazioni provocheranno l’intervento delle forze dell’ordine che forniranno così un’ottima occasione per dimostrare il grado di ira popolare contro il regime e la mancanza di libertà dell’opposizione;
5. in caso di elezioni, se il risultato non è conforme a quanto desiderato, si metterà in dubbio la capacità del sistema elettorale di assicurare un conteggio dei voti imparziale ed accurato.
Dopo la “rivoluzione” georgiana, le due regioni dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud (che già avevano dimostrato contrarietà all’unione con il resto della Georgia quando quest’ultima era diventata indipendente) scelsero la secessione. Nel 2008, quando da Tbilisi si inviò l’esercito per riaffermare l’unità dello Stato, le due regioni chiesero l’intervento della Russia in loro aiuto e lo ottennero immediatamente.
Come cominciò e finì quella guerra è già argomento di storia, ma ciò che importa è che fu una dimostrazione di cosa Mosca avrebbe fatto nell’ipotesi che uno Stato confinante ex parte dell’URSS potesse entrare a far parte della NATO. Consci delle negative conseguenze possibili, durante l’incontro NATO di Bucarest ove Bush aveva fatto mettere all’ordine del giorno l’immediato ingresso di Ucraina e Georgia nell’Alleanza, Francia e Germania (più sottotraccia anche l’Italia) vi si opposero con veemenza, perfettamente consce dei rischi che quella scelta avrebbe potuto comportare sulle relazioni fra Russia ed Europa e sulla stabilità della pace nel continente.

Testimone di uno spazio postsovietico in via di ridimensionamento e adirato per le molteplici promesse tradite, Vladimir Putin con la guerra del 2008 inaugurò così un nuovo corso politico che neanche il debole tentativo di “reset” della prima amministrazione Obama poté alterare o rallentare. Anche perché quel riavvio, del resto, si sarebbe rivelato ingannevole alla prova dei fatti: accordi da una parte, operazioni di destabilizzazione dall’altra (tra le quali la cosiddetta Rivoluzione della neve in Russia del 2011; trampolino di lancio, tra l’altro, dell’allora semisconosciuto Aleksei Navalny).
A conferma della nuova situazione dei rapporti tra le parti, nel 2014 venne a maturazione l’operazione di infiltrazione nella società politica e civile ucraina condotta da numerose ONG americane e da alcune europee. Erano anni che queste organizzazioni vi lavoravano e, dopo la battuta d’arresto avuta con l’elezione del filo-russo Yanukovich nel 2010, si pensò fosse giunto il momento buono. Che Maidan sia stato un colpo di Stato preparato e ben diretto dall’esterno con la partecipazione determinante dei gruppi nazionalisti, armati e istruiti specialmente in Polonia, è oramai assodato. Sono altrettanto chiari gli errori dei russi (politici ed economici) verso il governo di Yanukovich. Costui, sottovalutando tutte le circostanze, aveva creduto di ottenere migliori condizioni economiche e finanziarie da Mosca fingendo di flirtare con le promesse europee, salvo ritirarsi all’ultimo momento dopo aver ottenuto dal Cremlino garanzie di aiuti e prestiti a tassi favorevoli. Questa sua marcia indietro dal cammino a una maggiore integrazione con l’Europa dette lo spunto per scatenare la rabbia di chi pensava di aver già raggiunto il risultato voluto. Non fu difficile per i gruppi organizzati e per i media aizzare la delusione di chi già pregustava la cascata di denaro gratuito in arrivo dalla UE e dall’Occidente e nonostante, come sempre succede in questi casi, chi manifestava non era che una piccola percentuale degli ucraini, la violenza ebbe la meglio. Il governo che si instaurò dopo la fuga del Presidente (che era stato democraticamente eletto) mise immediatamente in chiaro la volontà ucraina di entrare formalmente, e al più presto, nella NATO e di cominciare la strada (lunga) di adesione alla UE. Da lì la reazione di Putin in Crimea. Questa penisola è abitata principalmente da russofoni e ospita a Sebastopoli la strategica base della marina militare russa sul Mar Nero. Per la Russia si è trattato di garantirsi che l’uso della propria base non sarebbe stata mai più messa in discussione. Fu tenuto un referendum che ne chiedeva l’annessione alla Russia e, nonostante la votazione troppo plebiscitaria lascia qualche sospetto, nessuno dubita che, comunque, la maggioranza dei votanti si sia espressa liberamente per il sì.

La secessione della Crimea ebbe come risultato di intensificare immediatamente ad opera di Kiev e della stampa occidentale la campagna anti-russa, già in atto da molto tempo in Ucraina: eliminazione dell’uso della lingua russa negli atti pubblici e nelle scuole, separazione della chiesa ortodossa di Kiev dal Patriarcato moscovita, persecuzioni locali verso i russofoni e enfatizzazione della vera o presunta “nazionalità ucraina”.
Perfino i grandi autori storici in lingua russa cominciarono a essere discriminati. La regione ad est, il Donbass a stragrande maggioranza russofona, si ribellò rivendicando una propria indipendenza e ottenendo subito il sostegno della Russia. Cominciò così la guerra civile tuttora in atto, con quasi 14mila morti dalla parte dei secessionisti. Naturalmente l’attenzione della stampa occidentale sui reciproci bombardamenti e sulle scuole e gli ospedali colpiti dalle artiglierie ucraine è stata minore perché i “criminali di guerra” sono, come sempre, soltanto i nostri nemici e i nostri amici restano in tutti i tempi i “buoni” che si battono per la giusta causa. Nessuno ha pensato allora di accusare davanti a qualche tribunale i gruppi paramilitari nazionalisti ucraini che diedero fuoco alla Casa dei Sindacati a Odessa impedendo di uscire a chi vi si era rifugiato. A Odessa i morti accertati, tutti civili, furono quasi un centinaio e sui cadaveri si videro segni di violenza di ogni genere, lasciando supporre che solo alcuni erano morti a causa dell’incendio. Una giovane segretaria incinta fu soffocata con il filo del telefono della sua scrivania (un video mostra alcuni ultras che sventolavano una bandiera ucraina dalla finestra del suo ufficio dopo l’omicidio) mentre secondo le testimonianze dei medici legali di Odessa alcune giovani donne sarebbero state stuprate prima di essere assassinate. Nessuno, ancora oggi, ama ricordare le malefatte di quei fanatici contro la popolazione russofona di quella e altre città e, al contrario, si sprecano le accuse contro i “carnefici” nell’esercito russo.

Da quel momento, qualche altro tentativo di risolvere la crisi e porre fine alla guerra civile fu intrapreso soprattutto da parte francese e tedesca. In due riprese a Minsk sembrò si arrivasse ad un accordo, e in effetti un’intesa fu siglata sia dal governo ucraino sia da quello russo a nome dei secessionisti del Donbass.
Fu prevista la creazione di una zona smilitarizzata di 50 km e lo smantellamento di tutte le postazioni di armi pesanti da entrambe le parti. Fu inoltre statuito che la Costituzione ucraina fosse modificata garantendo una grande autonomia alle regioni dell’est e che vi si svolgessero elezioni locali garantite da attori internazionali. Purtroppo, tutti questi che erano i punti più importanti apparentemente concordati non furono mai attuati. Le armi pesanti continuarono a restare in azione e il Parlamento di Kiev rifiutò di varare la riforma necessaria. Anche alle ultime elezioni nazionali ucraine i cittadini ucraini del Donbass non poterono partecipare.
Da allora la situazione è andata solo peggiorando, fino all’invasione militare russa del 24 febbraio.
Resta solo da aggiungere che, prima che Putin ordinasse lo spiegamento dei centomila soldati vicino al confine, la Nato, nello scorso luglio aveva compiuto, in Ucraina e con l’esercito ucraino, un’esercitazione militare che simulava una guerra in loco e che, verso dicembre/gennaio 2022 si era avuta notizia di spostamenti delle truppe ucraine in direzione della regione del Donbass. Come non pensare che Kiev si stesse preparando a lanciare un’offensiva in piena regola per riaffermare la propria autorità sulle “repubbliche” secessioniste?

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.

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