Ungheria ieri e oggi

di Giovanni Ciprotti

Orban viktorIl 4 novembre di sessanta anni fa i carri armati sovietici entravano a Budapest e ponevano fine alla rivoluzione ungherese.
Poco più di 10 giorni prima, il 23 ottobre, si era trasformata in aperta rivolta contro il regime la manifestazione di protesta alla quale avevano partecipato lavoratori, studenti, scrittori e giornalisti per chiedere elezioni con la partecipazione di tutte le forze politiche che avevano fatto parte del Fronte popolare patriottico, libertà di stampa e maggiore autonomia dall’Unione Sovietica.
Il giorno dopo truppe sovietiche erano entrate a Budapest per sedare i tumulti. Il precipitare della situazione aveva indotto Mosca a esercitare pressioni per la sostituzione dei vertici politici del Paese con esponenti meno compromessi con il periodo staliniano. Il conferimento della Presidenza del Consiglio a Imre Nagy, espulso due anni prima dal partito per “deviazionismo di destra”, era stato un segnale importante che aveva contribuito a rasserenare gli animi, tanto che alla fine di ottobre la situazione sembrava essere tornata sotto controllo e, conseguentemente, i reparti militari sovietici avevano abbandonato la città.
Purtroppo la tregua era destinata a non durare molto. Mosca aveva il timore che il nuovo capo del governo non riuscisse a gestire la situazione e accogliesse anche le istanze di riforma dei dissidenti più radicali. In parte i fatti confermarono le riserve sovietiche: il 1° novembre il governo presieduto da Nagy si pronunciò all’unanimità per l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia.
Ormai non c’erano più margini di composizione politica della protesta e l’Urss optò per l’intervento armato, sigillando quegli spiragli di cambiamento apertisi inaspettatamente nel febbraio dello stesso anno, quando durante il XX Congresso del Pcus il nuovo leader sovietico, Nikita Kruscev, aveva condannato il culto della personalità alimentato da Josif Stalin e i crimini commessi durante la dittatura staliniana.
La restaurazione politica in Ungheria costrinse più di 200mila persone a lasciare il Paese e a chiedere asilo politico oltre la “Cortina di ferro”. Quei profughi giunsero nei Paesi dell’Europa occidentale, dove erano ancora ben visibili le ferite della guerra ma nei quali l’opera di ricostruzione post-bellica aveva già reso evidente il divario tra i Paesi europei del blocco occidentale e le cosiddette “democrazie popolari”, a vantaggio dei primi. Gli ungheresi giunti nell’Ovest poterono costruirsi una nuova vita, certo lontani da casa ma godendo della libertà di scegliere come vivere, quella libertà che nel loro Paese gli era stata negata dai carri armati sovietici.
Merito del loro coraggio, ma anche dello spirito di solidarietà delle popolazioni che li accolsero, a loro volta alle prese con i problemi di una complessa e dispendiosa ricostruzione che era ben lungi dall’essere completata (il famoso miracolo italiano avvenne negli anni 1958-1963).
In Ungheria i cittadini dovettero adeguarsi a vivere, per altri 33 anni, in un Paese in cui le libertà politiche e civili erano compresse dal “socialismo reale” imposto da Mosca. Fu proprio l’Ungheria ad aprire, nel maggio del 1989, il primo varco nella cortina di ferro, riducendo così il grado di vigilanza del suo confine con l’Austria. Da quella apertura nelle settimane successive una processione di tedeschi dell’Est, con le loro modestissime Trabant, passò in Austria e quindi in occidente; era soltanto un assaggio di quello che sarebbe avvenuto il 9 novembre dello stesso anno, a Berlino, con l’apertura del Muro.
Ungheria 1956 grandeDopo il crollo dell’impero sovietico, la progressiva riunificazione dell’Europa ha consentito alle ex democrazie popolari, divenute Stati membri della Unione Europea, di avviare quelle riforme politiche ed economiche che stanno gradualmente permettendo loro di ridurre il consistente divario, sia economico sia sotto il profilo dei diritti civili e politici, che ai tempi del crollo del Muro li separava dai Paesi dell’Europa occidentale. E se è giusto riconoscere il grande impegno profuso da tutti i cittadini e dalle istituzioni dei Paesi dell’Europa centro-orientale, è bene anche ricordare che i progressi conseguiti non sarebbero stati possibili, almeno in tempi così brevi, senza i cospicui finanziamenti dell’Unione Europea.
L’Ungheria aveva beneficiato del sostegno dei cugini europei occidentali per tutto il periodo della guerra fredda e della solidarietà dell’Occidente nei confronti dei propri cittadini, costretti a fuggire all’ovest per inseguire il sogno di una esistenza più libera. Appartiene a quel gruppo di Paesi che ha compiuto, dopo l’ingresso nella Ue, quel “balzo in avanti” che il socialismo reale aveva sempre annunciato ma che nei fatti non era stato mai in grado di realizzare.
Oggi l’Unione Europea si vede rispondere con un “niet” alla richiesta di accogliere poco più di un migliaio di rifugiati extracomunitari, giunti nel nostro continente per sfuggire a un destino nefasto.
L’Ungheria di Viktor Orbàn è un Paese che alza il muro anti-migranti al confine con la Serbia e nel quale, al referendum del 2 ottobre scorso sui rifugiati, il 98,3% dei votanti ha rifiutato l’accoglienza obbligatoria dei richiedenti asilo. E’ un Paese che sta dimostrando di avere un senso di solidarietà e di adesione allo spirito comunitario inadeguato alle circostanze e allo status di Paese membro della Ue, ma ancor di più rivela un preoccupante deficit di memoria storica. E i popoli che soffrono di amnesia storica sono spesso condannati a rivivere le pagine più buie del loro passato.