Usa. Condannato a morte risulta innocente

di C. Alessandro Mauceri

Errori nelle sentenze capitali, ma gli USA continuano a votare contro le risoluzioni delle Nazioni Unite sulla pena di morte.
Il 17 giugno scorso, Barry Lee Jones è tornato in libertà dopo essere stato 28 anni nel braccio della morte di un carcere USA, in attesa di esecuzione. La sua vicenda esemplare, ha riaperto la discussione sull’efficacia o meno della pena di morte.
Nel 1994 Jones venne accusato di avere aggredito sessualmente e aver ucciso Rachel Gray, la figlia di 4 anni della sua convivente. L’uomo si dichiarò innocente, ma tutto andò storto. Una perizia forse troppo frettolosa stabilì che la bambina era morta a causa di una lacerazione dell’intestino tenue, provocata da un forte trauma contundente avvenuto nelle 24 ore precedenti. Dato che la bambina aveva trascorso la giornata precedente insieme a Jones, l’uomo venne subito accusato di omicidio. Nonostante si dichiarasse innocente, il legale d’ufficio che gli era stato affidato fece ben poco per assisterlo. Con una sentenza lampo venne condannato dal tribunale dell’Arizona, uno degli stati americani in cui è ancora prevista la pena di morte.
Jones presentò ricorso in appello. Questa volta chiese di essere assistito da un team di legali più preparati. Venne richiesta una nuova perizia sulla causa della morte della bambina. Questa dimostrò che le ferite che avevano provocato la morte della bambina risalivano a prima del penultimo giorno di vita. A un periodo nel quale non era affidata a Jones. Ben tre medici confermarono che la teoria dell’accusa era sbagliata. Uno di loro, un “rinomato patologo forense pediatrico”, dichiarò che la ferita di Gray “non avrebbe potuto essere inflitta il giorno prima della sua morte”.
Il castello di carte dell’accusa, frettoloso e inesatto, era caduto. La Corte d’Appello ordinò che l’imputato venisse scarcerato o riprocessato a causa della palese inesattezza dei dati e dell’incapacità del legale d’ufficio. Ma la Corte suprema si oppose, affermando che il sistema legale federale vieta di riaprire i processi solo sulla base di una presunta assistenza legale inadeguata, per cui confermò, la condanna. Lo fece sapendo che Barry Lee Jones fosse innocente!
Ancora una volta è stata necessaria la perizia dei legali per risolvere la questione. L’unico modo per evitare la pena capitale è stata ammettere di essere colpevole di “omissione di soccorso” per la morte di Rachel Gray. In altre parole, Jones ha dovuto ammettere di essere responsabile di non averla portata in ospedale il giorno prima della morte, quando la bambina aveva manifestato i primi dolori. Una confessione parziale e posticcia che ha fatto sì che il tribunale riducesse la sua pena a 25 anni di carcere, già scontati per intero. Solo grazie a questo stratagemma, trovato dai suoi legali, Jones è tornato libero.
Jones ha trascorso nel braccio della morte gli ultimi 28 anni della sua vita: arrestato quando aveva solo 36 anni, ora è tornato in libertà da vecchio.
Ma la sua liberazione ha riportato a galla i mille dubbi che esistono sulla volontà aberrante di voler continuare ad utilizzare questa pratica barbara. Chi pagherà per la vita trascorsa in carcere da innocente? Come trovare, dopo quasi trent’anni, il vero assassino della piccola Rachel? La madre della bambina, Angela, è stata condannata per abusi su minori a otto anni di carcere. Secondo alcuni anche il fratello della bambina avrebbe potuto avere un ruolo nella vicenda: poco prima della sua morte, pare che la bambina abbia parlato di un ragazzo che l’aveva colpita allo stomaco con una barra di metallo. Perchè non è stato cercato il vero colpevole? Ma soprattutto, perché continuare a ostinarsi a voler praticare la pena di morte visti gli errori giudiziari che si commettono continuamente?
Il caso Jones non è l’unico errore ad essere venuto a galla. Nel 2015 una ricerca condotta da un’associazione americana ha portato alla luce un dato scioccante: sarebbero ben 300 gli innocenti condannati a morte negli USA. Di loro solo 144 sono sopravvissuti. Oltre la metà sono stati uccisi pur essendo innocenti. Tra quelli che hanno evitato l’esecuzione, la maggior parte si è salvata grazie all’esame del DNA. Ma questa pratica si è diffusa solo a partire dagli anni ’90. Per tutti gli altri casi, quelli antecedenti quella data, non c’è nulla da fare. False testimonianze, indizi approssimativi, dichiarazioni ottenute con la forza, scambi d’identità. C’è di tutto e di più. Centinaia di casi accomunati da un unico dato: non poter tornare indietro.
Lo scorso anno, il 15 dicembre, le Nazioni Unite hanno adottato la Risoluzione 77/222 per la moratoria sull’uso della pena di morte. All’articolo 7, comma d di questo documento si legge: “…assicurare che ogni processo che porti all’imposizione della pena di morte rispetti le garanzie del giusto processo internazionalmente riconosciute, come un processo equo e pubblico e il diritto all’assistenza legale, incluso l’accesso adeguato all’assistenza legale in ogni fase dei procedimenti, senza discriminazioni di alcun tipo, incluse quelle nei confronti di persone appartenenti a minoranze e cittadini stranieri, tenendo presente che il mancato rispetto delle garanzie del giusto processo nei procedimenti che si concludono con condanne capitali potrebbe costituire una violazione del diritto alla vita”.
La mozione è stata approvata con 125 voti a favore, 37 contrari e 22 astensioni. Tra i paesi che hanno votato contro, Cina, Corea del Nord, Congo, Egitto, Kuwait, Libia, Pakistan, Qatar (sì proprio quello dove si sono svolti i giochi lo scorso anno!), Arabia Saudita, Giappone e… Stati Uniti d’America.