Usa. E’ guerra (politica) dell’acqua: via il Clean Water Rule

di C. Alessandro Mauceri –

Dopo il fallimento degli accordi per la riduzione delle emissioni di CO2, l’amministrazione Trump lancia un altro duro colpo sull’ambiente.
Nei giorni scorsi il presidente dell’EPA, l’Agenzia per l’Ambiente Americana, Andrew Wheeler ha dichiarato di aver ricevuto l’incarico di firmare l’abrogazione del Clean Water Rule, la norma che dal 2015 regolamenta l’utilizzo e protegge le acque interne negli USA. Wheeler ha sottolineato che “L’abrogazione è un’evidente presa di potere da parte di Trump, che dal suo insediamento ha cercato di rimuovere e sostituire i regolamenti che ostacolavano lo sviluppo economico”.
Una promessa, quella di abrogare questa norma, che Donald Trump aveva fatto già durante campagna elettorale.
Nel 1972, il Congresso aveva introdotto il Clean Water Act. Lo scopo era regolamentare i corsi d’acqua e le zone umide in tutto il paese. Sin da subito però erano emersi problemi e malumori legati da un lato alla sua area di applicabilità e dall’altro alle limitazioni che la legge imponeva alle aziende. Ne erano seguite diatribe legali durate anni. Come la SWANCC: nel 2001 la Solid Waste Agency della Contea di Cook del Nord citò in giudizio l’Esercito americano per aver negato il permesso di trasformare un’ex cava di estrazione di ghiaia in una discarica che nel corso degli anni si era riempita d’acqua diventando un luogo di sosta per gli uccelli migratori. Alla fine i giudici decisero che il Clean Water Act non riguardava le “acque isolate”, a meno che non esistesse un “nesso significativo” con le vie navigabili.
E poi nel 2006, quando un altro ricorso finì tra i banchi della Corte Suprema: il caso Rapanos. Un’azienda che gestiva centri commerciali aveva occupato una zona umida, sostenendo che era troppo lontano dalle acque navigabili per rientrare nei limiti imposti dalla legge. Alla fine perse la causa, ma i dubbi sulla legge non vennero eliminati del tutto: quattro giudici votarono per mantenere l’interpretazione del Clean Water Act di mancanza di un “nesso significativo”, altri cinque invece votarono diversamente, per quanto le discussioni non finirono lì.
La “legge sull’acqua”, il Clean Water Act, è da decenni oggetto di polemiche: tra i principali problemi c’è la definizione degli ambiti di applicazione. Una definizione che ha sollevato molte discussioni (e da entrambe le parti) è quella che riguarda le “acque navigabili”, che la norma definisce “acque degli Stati Uniti”.
Per porre fine a tutte queste diatribe, nel 2015, durante la presidenza Obama, venne approvata una nuova legge, il Clean Water Rule, il cui obiettivo era definire in modo più specifico le “acque degli Stati Uniti”. La conclusione fu che tutti i corsi d’acqua o le zone umide potevano avere un impatto rilevante su grandi corpi idrici anche se non direttamente collegate, a causa del potenziale impatto basato su una serie di fattori ambientali. E per questo dovevano essere posti sotto protezione federale. Una tesi confermata anche da numerosi studi scientifici compreso quello dell’EPA, il cui rapporto di 400 pagine e nel quale erano stati analizzati 1.200 siti sottoposti a “revisione paritaria”, giungeva alla conclusione che “la protezione delle nostre acque dipende davvero dalla qualità degli affluenti”, come aveva dichiarato anche David Cooper, ecologo delle zone umide della Colorado State University. Numerose anche le conferme da vari studiosi e ricercatori. “C’è quasi un consenso scientifico su questo tema”, aveva dichiarato Brian Chaffin, professore di gestione delle acque presso l’Università del Montana. 
Le limitazioni imposte dalla legge non sono mai piaciute ai grandi allevatori e ai coltivatori. The Farm Bureau, un gruppo di pressione che rappresenta le famiglie di agricoltori, ha più volte affermato di essere pronto a sostenere tutti gli sforzi per abrogare e sostituire la regola introdotta nel 2015 perché conferirebbe al governo federale un potere eccessivo sulle imprese agricole.
Una tesi che l’attuale presidente degli USA Donald Trump ha fatto propria sin dai tempi della campagna elettorale per le presidenziali. Secondo alcuni inoltre la norma vigente presentava alcuni errori procedurali e la mancanza di un adeguato supporto da parte dei registri che avrebbe potuto aprire la strada a lunghe cause giudiziarie.
Per questo motivo, appena eletto Donald Trump ha avviato l’iter per abrogare questa legge. Secondo la Casa Bianca il regolamento non dovrebbe ridurre la protezione per i grandi corpi idrici e per le zone umide limitrofe e anche le norme imposte dallo Stato non dovrebbero essere interessate. Ma la norma così come era stata scritta durante il mandato del suo predecessore non andava bene. Era troppo stringente.
Secondo alcuni inoltre il Clean Water Act (CWA) non avrebbe ottenuto i risultati previsti. A questo si aggiunge che non permetterebbe di dare il giusto peso alla politica del Congresso nella sezione 101 del CWA e di “riconoscere, preservare e proteggere le responsabilità e i diritti primari degli Stati a prevenire, ridurre ed eliminare l’inquinamento” e “per pianificare lo sviluppo e l’uso… di risorse idriche e terrestri” (33 USC 1251). 
Tutti motivi, secondo Trump, per avviare il percorso per abrogare la legge.
La sua posizione, però, non tiene conto del fatto che l’abrogazione di questa norma farebbe venir meno la protezione delle acque interne e metterebbe a rischio fiumi, laghi, torrenti e zone umide. Anzi, c’è stato anche chi ha parlato di rischi per la potabilità dell’acqua per 117 milioni di americani e di danni agli habitat della fauna selvatica del paese. Sono molti a pensare che la decisione presa dal presidente Trump riporterebbe indietro il paese indietro di diversi decenni, fino al lontano 1986. Il tutto, in cambio di pochi vantaggi per agricoltori, allevatori e imprese che non sarebbero più costretti a rispettare le limitazioni imposte da questa legge.
Ma anche questo è stato oggetto di accesi dibattiti: la tesi del presidente Trump secondo la quale abrogare la norma introdotta nel 2015 rimuoverebbe le protezioni su pochi “flussi effimeri”, cioè che compaiono solo dopo la pioggia, e le zone umide non direttamente collegate o adiacenti a grandi specchi d’acqua è stata smentita più volte. Già nel 2017 un reportage pubblicato anche sulla rivista National Geographic evidenziò che circa il 90 per cento dei flussi che si snodano attraverso l’ovest americano sarebbero “effimeri”. Un motivo in più per adottare una legge per proteggerli nella stessa misura adottata per i corsi d’acqua più grandi. 
Diatribe legali e tesi opposte che, nel tempo, si sono estese a tutto il paese: ad oggi sono ben 28 gli stati americani, soprattutto nelle regioni del sud e dell’ovest, nei quali gli oppositori della norma hanno intentato cause, impedendo così di fatto al regolamento del 2015 di entrare in vigore. Oggi la legge è implementata solo in 22 stati. In California, ad esempio. “La California non tollererà questo ultimo attacco ambientale da parte dell’amministrazione Trump, che potrebbe minacciare le protezioni federali per la maggior parte delle nostre acque”, ha dichiarato il procuratore generale della California Xavier Becerra. “I tentativi da parte dell’amministrazione Trump di premiare chi inquina non conosce limiti, quindi sta abrogando queste importanti protezioni senza riguardo per la legge. Questa azione priva di fondamento è illegale e sarà certamente contestata in tribunale”.
Dello stesso parere gli ambientalisti. In una intervista alla BBC, Blan Holdman del Southern Environmental Law Center (SELC) ha sottolineato che la decisione di Trump potrebbe avere “effetti immediati” sulla qualità dell’acqua e della fauna selvatica. “È stata rimossa la protezione delle zone umide e dei flussi effimeri protetti sia da Obama che dai suoi predecessori”. Ricerche preliminari condotte dal SELC hanno dimostrato che oltre il 70% delle zone umide nelle Carolinas e in Virginia potrebbero perdere le loro protezioni.