Il Qatar e la politica confusa di Donald Trump

di Dario Rivolta * –

Nei telefilm polizieschi capita sovente di vedere un gioco delle parti tra il poliziotto “buono” e il “cattivo”. Lo stesso procedimento è, a volte, utilizzato in alcune trattative commerciali quando qualcuno si mostra accomodante verso la controparte mentre un altro insiste su condizioni “irrinunciabili”. A guardare la politica estera degli Stati Uniti di questi ultimi mesi sembrerebbe di trovarci di fronte allo stesso meccanismo, con Trump che fa il “duro” e i ministri degli Esteri Tillerson e della Difesa Mattis che invece fanno i “moderati”. Purtroppo, o per fortuna, la politica internazionale non è né un interrogatorio con presunti criminali né un incontro limitato a discussioni d’affari. Ogni dichiarazione altolocata e ogni mossa diplomatica assumono valenza non soltanto per le persone (o gli Stati) cui s’indirizzano, ma hanno ripercussioni anche su Paesi terzi, moltiplicando in modo esponenziale le variabili coinvolte. Decisioni contraddittorie, anche se in un primo tempo possono far pensare a furbi machiavellismi, finiscono con il togliere affidabilità e prestigio a chi ne è artefice.
E’ questo il caso della politica estera di Trump, così come si è manifestata con le dichiarazioni aggressive verso la Cina poi smentite nei fatti, con gli intenti bellici contro la Corea del Nord finiti in nulla e, recentemente, con gli atteggiamenti assunti sul Qatar. Nonostante sia ridicolo accusare il Qatar di sostenere il terrorismo parlando proprio da Riad, il fatto potrebbe avere una sua logica. Certamente si tratta d’ipocrisia, ma spesso la real-politik fa premio sulla verità. Non siamo nuovi ai “doppi standard” americani e non è questo che stupisce. Piuttosto lo è l’aver incoraggiato i sauditi e gli alleati a isolare il Qatar additandolo come fonte di tutti i mali, l’aver venduto all’Arabia Saudita materiale da combattimento di ultima generazione salvo vendere, due giorni dopo, altri aerei da combattimento anche al Qatar, appena giudicato sponsor del terrorismo. C’e’ un’evidente contraddizione in tutto questo, anzi due. Durante la sua visita nel Golfo, Trump aveva insistito sulla necessità di far nascere una NATO arabica in funzione anti – Iran, esattamente come l’originale lo era contro l’Unione Sovietica. Se il Qatar è veramente più vicino agli iraniani che ai sauditi, tale vendita non consiste forse nel dare armi pericolose proprio ai “nemici”? La seconda: è possibile che il presidente americano non sapesse che vicino alla capitale qatarina esiste la più grande base statunitense in Medio Oriente? Vi sono dislocati circa diecimila militari a stelle e strisce, i bombardieri strategici B52, i modernissimi F22 e quella base costituisce il centro di comando per le operazioni in
Afghanistan, Siria e Iraq. Oltre ad essere una punta militare avanzata avente funzioni di deterrenza (si spera niente di più) verso l’Iran. Com’è possibile pensare di isolare Doha mantenendo quella posizione strategica praticamente insostituibile?
Non è dunque un caso che sia Mattis sia Tillerson si siano precipitati ad attenuare le dichiarazioni del loro presidente e a incoraggiare le posizioni mediatrici del Kuwait e dell’Oman. Una settimana fa, e cioè con la crisi scoppiata da una decina di giorni, si è perfino tenuta un’esercitazione navale congiunta tra americani e qatarini che mal si sposa con il clima di ostilità e di accuse contenute nelle parole di Trump.
Ora Tillerson cerca di mediare anche esponendosi personalmente dichiarando che l’emiro al-Thani e il suo governo stanno valutando “con attenzione” le condizioni richieste dai Sauditi per porre fine al blocco imposto. La lettera con le domande è stata inviata in data 22 giugno tramite il Kuwait e stabilisce dieci giorni di tempo per il suo accoglimento. Il 24, il governo di Doha l’aveva già giudicata “irragionevole” ma, dopo l’intervento americano, sembrerebbe che si sia aperto uno spazio per possibili negoziazioni. Tra le richieste avanzate, la fine del sostegno alla Fratellanza Musulmana e l’allontanamento da Doha di alcuni personaggi giudicati ostili quali il capo di Hamas, Khaled Meshal, alcuni responsabili di gruppi dell’opposizione siriana considerati non “in linea” da Riad e l’ufficio di rappresentanza dei talebani afghani. In tutto, si tratta di una lista di 13 “domande” inclusa la chiusura di al-Jazeera, considerata una voce di propaganda ostile agli alleati del Golfo. Non sappiamo come la vertenza si potrà chiudere ma, intanto, si sono già manifestate conseguenze non certo favorevoli per gli americani e la coalizione egiziana-saudita-emiratina. L’Iran e la Turchia, assieme all’Oman, hanno provveduto a inviare alimentari e altri generi di prima necessità per sostituire le importazioni che in precedenza passavano dal confine, ora chiuso, con l’Arabia Saudita. La Turchia inoltre ha deciso di rendere esecutivo, con un immediato voto del Parlamento, un accordo bilaterale in materia di difesa siglato nel 2014. In base a questo trattato, i turchi apriranno subito una propria base militare in Qatar e vi saranno dislocati tremila soldati, ufficialmente con il compito di addestrare le milizie locali. Ben difficilmente in futuro, anche nel caso di uno stemperarsi della tensione, Ankara ritirerà le sue truppe. Alle proteste saudite, Erdogan ha risposto che uguale proposta era stata fatta anche a Riad ma non si era avuta alcuna risposta e che, comunque, non avrebbe mai fatto marcia indietro. La diplomazia qatarina non si è fermata all’amicizia dei Paesi dell’area: il ministro degli Esteri Mohammed bin Abdulrahman bin Jassim al-Thani è subito volato in Germania e in Russia per cercare sostegni anche altrove. L’asse Iran, Russia e Turchia, ben visibile in Siria, potrà così annoverarvi anche il Qatar che era fino ad ora uno degli ostacoli nel risolvere la questione siriana secondo le aspettative degli amici del regime. Considerato che l’Oman resterà neutrale e che le difficoltà interne alla società del Bahrein, sciita al 70 percento, non faranno che aumentare, il risultato finale potrebbe diventare un pessimo affare per l’egemonia americana nell’area.
L’influente e ben introdotto ambasciatore emiratino in Usa, Yussef al-Otaiba, appena conosciuto il risultato delle elezioni presidenziali americane scriveva una mail a un collaboratore di Obama dicendo: “In quale pianeta Trump può veramente fare il presidente?” (pubblicato dall’Huffington post). Può darsi sia una domanda che dovremo proporci spesso.

(Foto Notizie Geopolitiche).

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.