Lo Zimbabwe del dopo-Mugabe

di Gianluca Vivacqua

Dopo 37 anni lo Zimbabwe volta pagina. Un crepuscolo breve ma intenso come un’eclissi ha accompagnato la fine della lunga era di Mugabe; ad alba fatta, il paese ha trovato un nuovo volto alla sua guida, quello dell’ex vicepresidente Emmerson Mnangagwa, che ha giurato come “mutungamiriri wenyika” (“presidente” nella lingua dello Zimbabwe) lo scorso venerdì.
Settantacinque anni compiuti da poco più di due mesi, Mnangagwa, nato nel villaggio di Zvishavane, nella provincia delle Midland, era stato la seconda carica dello stato zimbabwese (e quindi dello Zanu-PF, il partito al potere) dal 2014 fino al 6 novembre di quest’anno, quando venne licenziato all’improvviso dal presidentissimo di Kutama per “carenza di rispetto, slealtà, inganno ed inaffidabilità”.
In realtà, a quanto pare, a determinare una decisione così repentina – e comunque non certo estranea allo stile di una personalità vulcanica come quella di Mugabe – più che l’effettiva ostilità del presidente sarebbe stata la volontà della presidentessa in pectore, l’ambiziosa Grace, di preservare il suo potere. La vicenda della (seconda) signora Mugabe appare materia degna di un paragrafo di storia scritto da un Tacito di lingua shona: Grace Mugabe preparava da più di vent’anni, con pazienza e discretamente, la successione al marito. Era il 1996 quando l’ex moglie di un aviatore, divenuta dattilografa di Mugabe, colmò la lacuna lasciata nel cuore di quest’ultimo dalla morte della prima first lady, Sally Hayfron; da allora, ella cominciò a tessere la sua tela di potere con meticoloso zelo, sostanzialmente per se stessa e non tanto a beneficio, magari, del figlio natole in precedenza (ma in prospettiva chissà:). Fu proprio una macchinazione della presidenziale consorte a far fuori, nel 2014, l’allora numero due della Repubblica, la signora Joice Mujuri, privata della sua carica con l’accusa di tramare un complotto contro Mugabe. La verità era un’altra: con tutta probabilità Grace aspirava ad essere al posto della Mujuri sin da quando, nel 2004, ella era succeduta a Simon Muzenda, “delfino” presidenziale sin dal 1987.
Essere vicepresidenti (e, lo ricordiamo, anche vice-capi del partito di governo), nello Zimbabwe di Mugabe significava acquisire automaticamente il biglietto per la successione all’eterno numero 1: il difficile, ovviamente, era durare nella carica un po’ di più di quanto Mugabe potesse durare nella propria. Questi discorsi non sarebbero valsi per la moglie del presidente, alla quale questi avrebbe anche potuto concedere un’abdicazione spontanea. Ma era comunque necessario avere la vicepresidenza in mano e Grace, che dal 2014 aveva fatto una vertiginosa scalata all’interno dello Zanu-PF, stava per giocare la mossa definitiva in questo senso: l’ultimo ostacolo che rimaneva tra lei e l’agognata carica era proprio la presenza ingombrante del nuovo vice del marito, Mnangagwa, eliminato il quale, credeva lei, nessuno avrebbe più potuto negarle il suo traguardo, data la sua posizione di ormai assoluta preminenza all’interno del partito con il suo movimento, il G-40.
Non è andata così: probabilmente il popolo zimbabwese avrebbe sopportato perfino qualche anno in più di Mugabe piuttosto che vedersi governato, di punto in bianco, da una donna che non è neppure nata in Zimbabwe.
A farsi interprete di questo malessere più che serpeggiante sono stati i militari, autori del colpo di Stato del 14 novembre scorso. Se Grace Mugabe aveva dalla sua il beneplacito del marito e la calliditas politica, Emmerson Mnangawa, nel frattempo spedito in esilio, poteva contare sull’elemento forse più decisivo in assoluto: l’appoggio dell’esercito, quello stesso esercito che per più di un quarto di secolo era stato lo strumento fedele del regime mugabiano. Il golpe, che ufficialmente non aveva come obiettivo Mugabe bensì i suoi collaboratori, veri responsabili del collasso politico-economico del paese, è riuscito in effetti nell’intento di liquidare molti dei mugabiani, inclusa la moglie, facendo sì che abbandonassero il paese, e in quello ancora più importante di ottenere dal presidente le dimissioni.
Conseguenza immediata di ciò è stato il ritorno in patria di Mnangagwa: a lui ora, grazie a un potere che nessuno aveva mai avuto prima in Zimbabwe dacché Mugabe aveva occupato il vertice dello Stato, tocca aprire una nuova pagina della storia del paese.