Usa. Popolarità di Trump al tracollo

di Gianluca Vivacqua –

Comprereste un immobile da quest’uomo? In questo preciso momento, per molti cittadini statunitensi la risposta a questa domanda, associata ad una foto del loro presidente con un sorriso a 32 denti, sarebbe semplicemente “no”. Il meno amato dagli americani: così si può definire Donald Trump a poco meno di un anno dal suo insediamento alla Casa Bianca. Lo certifica un’indagine compiuta congiuntamente da Nbc e Wall Street Journal: secondo i dati raccolti dall’emittente televisiva newyorkese e dalla bibbia giornaliera dell’economia Usa, l’appeal attuale del commander in chief non supererebbe quota 38%; ne consegue che il restante 58% della popolazione è tutt’altro che trumpista, anche se non necessariamente anti-Trump. Quel che conta è che l’apprezzamento di massa latita, langue, anzi di fatto ora non c’è. Ma non è finita qui: Trump totalizza l’indice di gradimento presidenziale più basso, limitatamente al periodo dei primi nove mesi di mandato, dal 1993 ad oggi.
In questa speciale classifica avulsa, ad occupare il primo posto (e sorprende sulle prime, anche se il motivo si può individuare), c’è George Walker Bush: il presidente che avrebbe legato il suo nome alla guerra in Afghanistan e al secondo conflitto in Iraq, nei primi nove mesi del suo incarico (in quel 2001 che, fino all’apocalisse dell’11 settembre, non aveva avuto eventi di rilievo al di fuori dell’affaire Enron e delle polemiche ancora non sopite sul conteggio dei voti in Florida) era riuscito a racimolare un “patriottico” 88% dei consensi. Diciamo “patriottico” perché Bush si trovò a vivere un momento di grazia in cui il sentimento di rivalsa nei confronti del terrorismo che molta parte del paese nutriva era chiaramente sintonizzato con gli intenti della Casa Bianca.
Al secondo posto c’è Barack Obama, col 51% del gradimento complessivo. L’uomo della svolta e delle grandi speranze, che pochi mesi dopo il trasloco al n. 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington avrebbe anche ricevuto il Nobel per la Pace, si godeva ancora l’incantevole luna di miele con un elettorato disposto a dargli credito anche al di là dei risultati più tangibili. Ci avrebbero pensato gli anni a venire a far raffreddare la carica di aspettative che il senatore dell’Illinois era riuscito a concentrare intorno a sé: col perdurare della crisi economica; la lotta estenuante al Congresso per l’approvazione della riforma sanitaria che avrebbe dovuto costituire l’atto iniziale di un nuovo corso rivoluzionario ma che finì per essere il compendio di tutta la sua azione rinnovatrice insieme alla legge di fine secondo mandato per la regolarizzazione degli immigrati; le promesse non mantenute sul disimpegno immediato in Iraq e in Afghanistan, segnale di una gestione dei due fronti più difficoltosa di quella dichiarata o auspicata, e comunque inabile a prevenire certe evoluzioni pericolose come la nascita e l’affermazione dell’Isis. Ma tutto questo, lo ripetiamo, nell’ottobre del 2009 era ancora difficilmente intuibile.
Al terzo posto, subito prima di Trump, viene (e anche qui forse c’è un po’ di sorpresa), Bill Clinton, che dopo nove mesi di mandato riuscì a guadagnarsi un 47% di gradimento. A guardarlo razionalmente, però, si tratta di un risultato di tutto rispetto: dopotutto Clinton era un homo novus, una specie di Carter degli anni ’90 (e proprio come Carter, guarda caso, provò a dare una soluzione alla questione israelo-palestinese con una nuova Camp David). Quando arrivò alla Casa Bianca, nessuno sapeva poi così tanto di quel governatore dell’Arkansas che era cresciuto alla periferia del potere: si poteva solo scommettere su un leader che raccoglieva il testimone da un gigante come George Bush sr., braccio destro di Reagan e poi vincitore in scioltezza della prima guerra del Golfo. Eppure Clinton, come un Davide, aveva battuto proprio lui, il grande Golia, e alla Casa Bianca, poi, sarebbe rimasto addirittura quattro anni in più dell’illustre sconfitto. Anni in cui Clinton, nonostante tutto (pensiamo al Sexygate, ma anche alle pericolose avventure belliche in Kosovo e in Somalia, compensate però dalla legge per l’assistenza sanitaria ai bambini), non fece altro che accrescere sempre di più la propria popolarità. Tanto da essere, oggi, uno degli ex presidenti americani viventi più amati.
Aumentare la propria popolarità nel tempo è quello che si augura fortemente anche Trump, non potrebbe essere altrimenti. Il 38% di oggi potrebbe significare tutto, ma potrebbe anche non significare niente: per il momento sembra essere il risultato del suo accanimento contro il sistema di riforme obamiano; delle facili prese di posizione sulle questioni sociali più disparate, che diventano cadute di stile; delle esibizioni di forza non necessarie nei confronti della Corea del Nord, che appare più una fonte di provocazione che di vera minaccia; e, infine, del Russiagate, quel “peccato originale” della sua presidenza che sin dall’inizio ha giocato come fattore destabilizzante del clima della sua amministrazione ed è stato responsabile in gran parte del vorticoso turnover dei ministri. In ogni caso è evidente che da Donald Trump, un uomo che ha già vinto contro tutto e tutti, non ci si aspetta niente di meno che possa sbaragliare ancora le previsioni.