Centrafrica. Il paese dei molti drammi: guerre, profughi e bambini-soldato

di C. Alessandro Mauceri

Bambini soldatoCi sono problemi nel mondo di cui si preferisce non parlare. E a volte lo si fa anche quando i numeri sono davvero mostruosi. Come nel caso della Repubblica Centroafricana, un paese sconosciuto ai più. Sono in pochi ad essere informati su questa ex colonia francese (ai tempi il suo nome era Ubangi Shari) che ottenne l’indipendenza solo nel 1960. Seguì un trentennio di governo quasi esclusivamente militare, fino al 1993 quando si insediò un governo civile. Governo che non significò, però, pace: da allora, in un ventennio, i colpi di stato si sono succeduti uno dopo l’altro. Fino all’ultimo del 2013 quando il capo di stato, Bozizé, è stato costretto alla fuga dopo la presa della capitale Bangui da parte dei ribelli Seleka.
Dopo la sua fuga, prima in Repubblica Democratica del Congo e, poi, in Camerun, in assenza di qualsiasi democrazia, i ribelli hanno posto a capo dello Stato della Repubblica Centrafricana Michel Djotodia, uno dei più strenui oppositori dell’ex presidente e loro leader. A gennaio 2014, Djotodia si è dimesso ed è stato nominato presidente provvisorio Alexandre-Ferdinand Nguendet. Pochi giorni dopo Catherine Samba-Panza ha preso il posto di Nguendet ed è stata eletta, per la prima volta grazie al voto del parlamento, presidente di transizione della Repubblica Centraficana.
Ma le conseguenze di scontri interni, senza che nessuna organizzazione internazionale sia intervenuta per sedarli e senza che nessuno abbia pensato che fosse indispensabile riportare la democrazia e la pace nel paese, hanno lasciato ferite profonde i cui effetti si sentono ancora oggi. Il gruppo Seleka, a maggioranza musulmana e guidato da Djotodia, si è rivolto con ogni mezzo contro chiunque fosse non musulmano. Per fronteggiarle sono nate diverse “milizie di autodifesa”. Il risultato è che in pochi anni il numero dei morti è superiore a 5000 e a più di 800.000 sfollati.
Scissione che si è manifestata anche all’interno della capitale Bangui dove la comunità musulmana è stata costretta a spostarsi verso est, mentre la maggioranza non musulmana si è concentrata nell’area occidentale. Molti sono finiti nel campo profughi che è stato allestito nei pressi dell’aeroporto della città. Oggi questo campo profughi è esso stesso una vera città nella città, dal momento che è arrivato ad ospitare anche 100.000 persone (oggi sono circa 20.000). Bertin Botto, cordinatore del campo M’Poko, ha detto che dei “rifugiati presenti nel campo, nessuno ha più una casa o un riparo. Soffrono, non hanno più nulla. È questo che li trattiene a non tornare, più che l’insicurezza generale che regna nel Paese”. Altri profughi sono stati esiliati, con ben poche speranze di tornare nelle proprie case. Gran parte della minoranza musulmana è fuggita in Ciad, Camerun e nella Repubblica Democratica del Congo. Decine di migliaia sono fuggiti su convogli stradali, spesso poi attaccati da forze anti-Balaka.
Una guerra civile che, come sempre, ha avuto origine non per motivi religiosi o ideologici, ma economici (il controllo delle immense ricchezze minerarie del Paese), continua a provocare vittime, esodi di massa, fame e distruzioni. Solo che ora a subire le conseguenze di questa guerra non sono i soldati ma la popolazione civile. Solo nell’ultimo conflitto, si stima che i minori coinvolti in gruppi armati attivi nella Repubblica Centrafricana siano stati tra i 6.000 e i 10.0000, ai quali vanno sommati gli oltre duemila minori coinvolti nel colpo di stato precedente. È quanto emerge dal rapporto “Intrappolati nei combattimenti” di Save the Children. Bambine e bambini, a volte di età inferiore agli otto anni, costretti a combattere o a trasportare rifornimenti e svolgere altri compiti in prima linea o di supporto. Secondo il rapporto, i minori spesso sono stati vittime di abusi fisici e mentali da parte dei miliziani e ad alcuni è stato imposto di uccidere o commettere ogni genere di violenze.
In alcuni casi per i minori arruolarsi è stato solo un espediente per sopravvivere. “Tanti di questi bambini e adolescenti hanno vissuto esperienze che neanche un adulto dovrebbe mai vivere, avendo assistito alla perdita di propri cari, alla distruzione delle proprie case ed essendo sopravvissuti per mesi nella boscaglia, in condizioni di pericolo e insicurezza estremi”, ha dichiarato Julie Bodin, Responsabile Protezione Minori di Save the Children nella Repubblica Centrafricana. “Ogni giorno ci addestriamo duramente, strisciando faccia a terra. I soldati vogliono farci diventare cattivi, spietati”, dice Grâce à Dieu, che è entrata in un gruppo armato nel dicembre 2012 a 15 anni. “Quando si combatte, siamo noi, i bambini, ad essere mandati spesso in prima linea, mentre gli altri invece restano nelle retrovie. Io ho visto molti bambini come me morire in combattimento. Ho visto molte atrocità”.
Bambini che, anche oggi che la guerra è finita, continuano a essere vittime della guerra sebbene al di fuori delle statistiche: “Anche se lasciano i gruppi armati o vengono liberati, questi bambini corrono il rischio di essere stigmatizzati, temuti o rifiutati dalle loro stesse comunità e faticano a ritornare ad una vita normale dopo essere stati così a lungo immersi nella violenza”. Spesso il livello di povertà estrema, insieme all’impossibilità di accedere ad un’istruzione per i più piccoli o a un lavoro per i più grandi, rendono inevitabile per questi minori finire in gruppi criminali.