Clima. La fine delle Cop: un petroliere a capo della Cop28

di C. Alessandro Mauceri

Nei giorni scorsi è stata probabilmente scritta la parola fine sulla credibilità delle Conferenze delle Parti, le leggendaria COP. In passato questi incontri hanno segnato la storia delle decisioni ambientali a livello planetario, si pensi alla Convenzione quadro ONU sui cambiamenti climatici della United Nations Framework Convention on Climate Change (UNFCCC) firmata a Rio a giugno 1992, entrata in vigore nel 1994: la sua inaugurazione ufficiale avvenne l’anno dopo in occasione della COP di Rio. In quell’occasione vennero definiti i dettagli dell’accordo quadro con il quale tutti i paesi del pianeta riconoscevano la necessità di affrontare e ridurre il pericoloso processo di destabilizzazione del sistema climatico e il riscaldamento del pianeta di origine prevalentemente antropica. Due anni dopo, nel 1997, a Kyoto, si svolsero i lavori della COP3. Un altro momento storico: venne sottoscritto il Protocollo di Kyoto.
Da allora gli incontri annuali si sono ripetuti costantemente, ad eccezione del 2020 causa pandemia. Ogni anno, nonostante i problemi e i diversi punti di vista, sono stati fatti piccoli passi avanti, a volte anche con decisioni discutibili come quella sulla compensazione o quella sulla responsabilità dei paesi sviluppati per i danni causati sui paesi a basso e medio reddito LMIC.
Nel 2015 a Parigi, al termine della COP21, sembrò che i leader mondiali avessero finalmente preso la strada giusta. Poi tutto subì un pesante rallentamento con l’elezione di Donald Trump a presidente degli USA, il quale cancellò con un colpo di spugna tutto quello che aveva promesso il suo predecessore. Un cambio di rotta che venne seguito da molti paesi.
Da allora, la situazione non ha fatto che peggiorare. Fino al 2022, con la COP27 in Egitto: lo scorso anno sono emersi con chiarezza due aspetti fino ad allora poco chiari, cioè l’incapacità o la “non volontà” di ridurre le emissioni di CO2, principali responsabili dei cambiamenti climatici, e la pressione massiccia esercitata dalle multinazionali del petrolio.
Nel 2023 questa “pressione” è diventata insostenibile, al punto da mettere in discussione l’utilità stessa della Conferenza delle Parti. Non solo per la decisione di svolgere i lavori negli Emirati Arabi Uniti, uno dei paesi maggiori produttori al mondo di combustibili fossili ma, colmo dei colmi, per aver lasciato che a presiedere la COP di Dubai fosse un petroliere. Ad essere nominato presidente della COP28 è stato il sultano Ahmed al-Jaber che, oltre ad essere ministro, è anche amministratore delegato dell’Abu Dhabi National Oil Company, il gigante petrolifero dello stato arabo.
In pratica, a guidare i negoziati per ridurre le emissioni di CO2 in tutto il pianeta, a impostare l’agenda, a limare gli accordi dovrebbe essere l’ad. di una delle maggiori imprese che emettono (indirettamente) CO2 negli EAU e nel mondo. Per fare un paragone, sarebbe come se a decidere come ridurre il cancro ai polmoni venisse chiamata una delle maggiori aziende che producono sigarette. Come se a presiedere una conferenza di vegani venisse mandato il maggior allevatore di animali da macello.
Appare evidente che delle aziende del gas e del petrolio non è più di una partecipazione laterale, per quanto massiccia. Negli anni passati ai tavoli delle COP si sono seduti centinaia di personaggi direttamente o indirettamente legati alle multinazionali del petrolio. Non è nemmeno il fatto di avere come sponsor dell’evento aziende tra le maggiori responsabili dei danni all’ambiente, cosa che in passato aveva sollevato accese polemiche. Ora a guidare gli incontri è l’ad. di una delle aziende responsabili delle emissioni che si vorrebbe ridurre se non eliminare. Un controsenso che Global Witness ha definito un “colpo durissimo”” alla credibilità della COP28. Anche Action Aid ha commentato questa scelta assurda dicendo che in questo modo BigOil rischia di prendere il controllo del processo decisionale dell’assemblea. Ancora più pesante il commento di Greenpeace, che ha dichiarato di essere “allarmata”, perché non dovrebbe “esserci posto per le fonti fossili all’interno dei negoziati”.
Cosa accadrà è già realtà. Come ha confermato l’agenzia Bloomberg, al- Jaber ha già avviato un programma che conferma la volontà di effettuare una transizione verso le energie pulite, ma solo permettendo alle fonti fossili di continuare a ricoprire un ruolo centrale.
Un ulteriore cambiamento epocale dopo quello degli anni scorsi: finora gli scienziati di tutto il mondo hanno ribadito la necessità di liberarsi da carbone, petrolio e gas, di smettere di investire in nuovi giacimenti e miniere e di cambiare modo di produrre energia. Alla COP28, si farà l’esatto opposto: si parlerà di green, di verde, di transizione ecologica ma senza rinunciare ai combustibili fossili.
I primi colloqui avviati con le diplomazie internazionali dal sultano parlano di transizione “graduale”. Se ciò non dovesse avvenire, secondo al-Jaber, il rischio sarebbe creare problemi alle economie emergenti, che in molte aree presentano ancora un accesso limitato all’erogazione di energia elettrica. “Il mondo – ha detto il numero uno della Abu Dhabi National Oil Company a margine degli incontri in India – ha ancora bisogno di idrocarburi e ne avrà bisogno anche in futuro, per poter passare dall’attuale sistema energetico al prossimo. Non possiamo staccare semplicemente la spina senza prima aver completato la transizione”. Per soddisfare questo “bisogno”, gli Emirati Arabi Uniti aumenteranno la produzione di petrolio nei prossimi anni: se oggi vengono immessi sul mercato circa 3,4 milioni di barili di greggio al giorno, il piano è portare questo quantitativo a 5 milioni entro il 2027.
Aspetto non secondario, al-Jaber non sta rivolgendo la propria attenzione verso i paesi che finora hanno subito i maggiori danni dai cambiamenti climatici ma verso chi li ha causati. Dopo l’India sono in programma visite in Europa e negli USA. Obiettivo? Ridurre gli investimenti nelle fonti energetiche pulite come solare e eolico e riprendere un mix di “soluzioni” che comprende i combustibili fossili.
A confermare questa volontà i finanziamenti concessi dalle banche alle aziende del gas e del petrolio: non si sono mai fermati del tutto. Anzi, negli ultimi mesi a questi si sono aggiunte nuove forme di finanziamento mediante la cartolarizzazione della “produzione dimostrata e sviluppata” (“Proved developing producing” o PDP), che ha permesso ai produttori di petrolio o di gas di emettere obbligazioni in una transazione di cartolarizzazione garantita da attività reali , “Asset backaed securities” (ABS). In parole povere, i produttori upstream hanno utilizzato la liquidità derivante dalla loro produzione di petrolio e/o gas come garanzia per le obbligazioni collocate presso gli investitori emettendo titoli garantiti dai giacimenti di idrocarburi certificati, per cui si finanzia il prodotto da estrarre usandolo come garanzia. Un modo nuovo ma efficace di “fare cassa”.
Per decenni le COP sono state un’occasione per provare a cambiare il mondo. Ora sembrano poco più che una farsa per giustificare il “non cambiamento”. Le conseguenze di questo cambiamento potrebbero essere più gravi di quanto potrebbe sembrare. L’intero sistema su cui si basano le Nazioni Unite è rischio. A perdere credibilità potrebbe non essere solo la COP ma il concetto stesso di “nazioni unite”.