Crescono le tensioni Usa-Cina: Trump ordina la chiusura del consolato di Houston; misura simmetrica della Cina

Rubio, ‘è un nodo della rete di spie del Partito Comunista’. Possibile escalation: Pechino, ‘adotteremo le contromisure’.

di Enrico Oliari

E’ ormai guerra di consolati fra Washington e Pechino. L’ultimo battibecco fra gli Usa di Donald Trump e la Cina comunista (o pseudo tale) vede infatti l’ordine di chiudere la sede del consolato della Repubblica Popolare di Houston, in Texas. A rendere nota la decisione dell’amministrazione Usa è stato il portavoce del dipartimento di Stato, Morgan Ortagus, il quale ha riferito che “La chiusura della sede diplomatica cinese è stata chiesta per proteggere la proprietà intellettuale americana e le informazioni private”, ed ha fatto notare come “i diplomatici debbano rispettare le leggi e i regolamenti degli stati che li ospitano”, cosa prevista dalla Convenzione di Vienna del 1961. Sottolineando che “essi hanno il dovere di non intervenire negli affari interni dei paesi ospitanti”, il portavoce ha insistito che gli Usa non tollereranno ulteriori violazioni della propria sovranità da parte della Repubblica Popolare Cinese, come pure il furto della proprietà intellettuale e del lavoro degli statunitensi.
In altre parole il consolato di Houston è stato chiuso perché è un covo di spie, come avviene nei consolati i mezzo mondo, ma è certo che gli 007 di Pechino lì hanno superato ogni limite cercando di carpire i segreti industriali di uno dei principali centri di sviluppo tecnologico del paese.
Che la sede diplomatica in realtà fosse un covo di spie era cosa già appurata da tempo, ed anche il repubblicano Marco Rubio ha confermato sulla Fox che “il consolato di Houston non è una struttura diplomatica – ha affermato il senatore della Florida -. È il centro dell’ampia rete di spie del Partito Comunista negli Stati Uniti”.
Nella sede diplomatica il personale ha bruciato enormi quantità di documenti, e le immagini riprese da un edificio vicino hanno fatto il giro del web.
Da Pechino la prima reazione è stata quella di protesta, ma poi si è passati alla scontata misura simmetrica, quasi certamente il preludio ad un’escalation diplomatica che si accompagna a quella commerciale e che non è detto termini con la possibile elezione di un presidente democratico: un quadro di tensione crescente e che interessa ogni campo, si pensi al 5G, agli hackeraggi continui dei sistemi industriali e ancora al recente ritiro degli Usa dall’Organizzazione mondiale della Sanità dopo le accuse di Trump sulle responsabilità della Cina nella pandemia da coronavirus.
Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, ha avvertito che “quella di Washington è una provocazione scandalosa e ingiustificata che viola in modo grave la legge internazionale, le norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali e l’accordo bilaterale per i consolati tra Cina e Usa”, e da lì a poco è stata ordinata la chiusura del consolato statunitense di Chengdu, città di 16,3 milioni di abitanti e capoluogo della provincia sud-occidentale di Sichuan: si tratta di una sede consolare importante e strategica per via dei contatti con il Tibet e con le altre minoranze etniche.
Il segretario di Stato Usa Mike Pompeo ha accusato il presidente cinese Xi Jinping di essere “adepto di una ideologia totalitaria”, ed ha avvertito nel corso di un intervento presso la Richard Nixon Presidential Library, in California, che “Se il mondo libero non cambierà, la Cina comunista cambierà noi”.
Collegata alla crisi dei consolati vi è anche quella delle spie: l’Fbi ha provveduto ad arrestare una ricercatrice cinese, Tang Juan, dopo essersi rifugiata nel consolato di San Francisco: è accusata di essere una spia dell’Esercito di liberazione cinese e di frode sul fronte dei visti di soggiorno negli Usa. Stessa sorte è toccata a tre cittadini cinesi, anche loro accusati di essere spie e di aver favorito l’entrata di altri agenti negli Usa attraverso un giro di visti falsi.