Il debole, debolissimo “caso Navalny”

di Dario Rivolta

In uno dei suoi interessanti romanzi, I Falsificatori (2007), Antoine Bello ci narra di un’ipotetica organizzazione, il “Consorzio per la falsificazione della realtà”, che reinventa la realtà per finalità e scopi ignoti perfino a molti dei suoi stessi membri. Gli addetti agiscono sulla scena internazionale, e non solo, “creano” eventi ma vi costruiscono attorno, prima e dopo degli stessi, informazioni ed indizi che servono per rendere assolutamente credibile un fatto che vogliono sia creduto come reale, anche se non è mai avvenuto davvero. Il messaggio implicito mette in evidenza il potere illimitato della disinformazione, pur senza dover ricorrere a ipotetiche teorie complottistiche oggi alla moda.
Nell’organizzazione citata, il Bello descrive gli “scenaristi” che progettano tutto l’evento e valutano cosa si debba fare per renderlo più credibile. Immaginano quali documenti del passato occorra inventare o modificare, quali persone o autorità vadano coinvolte magari a loro insaputa, quali sono i media che devono essere utilizzati per diffondere e convalidare la notizia e via di questo passo. Poi ci sono gli “esecutori”, quelli che realizzano il progetto preparato a tavolino dagli “scenaristi”.
Purtroppo o per fortuna, a secondo dei punti di vista, in ogni vicenda umana le variabili sono sempre innumerevoli e, per quanto gli eventuali “scenaristi” riescano a elaborare delle trame perfette sulla carta, errori umani degli esecutori o eventi imprevisti, ancorché secondari, possono, a volte, inficiare in tutto o in parte la credibilità di ogni “narrazione”.
Paradossalmente anziché facilitare la conoscenza della verità, la grandissima moltitudine di informazioni disponibili oggigiorno, anche via internet, non fa che aumentare la confusione in chi cerca di capire come stiano veramente le cose in merito a un fatto che giudica interessante e degno di approfondimento. Ciò facilita il compito di chi vuole costruire qualche “verità”, forse totalmente inventata.
Quando, recentemente, sia gli USA sia l’Unione Europea hanno deciso di lanciare nuove sanzioni alla Russia per il cosiddetto “caso Navalny” mi è venuto spontaneo alla mente il libro di Antoine Bello.
Non ho evidentemente nessuna informazione di prima mano e non sono quindi in grado di asserire se quanto riportato dalle fonti di informazione europee e americane sia vero o falso. Non so, in tutta sincerità, se Navalny sia stato davvero vittima di un tentativo di avvelenamento e soprattutto da parte di chi. Da cittadino europeo non posso nemmeno permettermi di dubitare delle affermazioni categoriche rilasciate da alcuni nostri governi e, in particolare, dalla cancelliera tedesca Angela Merkel in merito alle responsabilità di Mosca. Comunque stiano le cose non posso tuttavia esimermi dal notare alcune incongruenze, siano esse imputabili ad una possibile inefficienza degli “esecutori” russi o alternativamente all’imprecisa ricostruzione dei fatti narrati in occidente.
Se l’assassinio di Navalny è stato commissionato da qualcuno a Mosca occorre rilevare il basso livello professionale cui sembrano essere precipitati i servizi segreti di quel Paese. Dove è finita l’efficienza delle spie, una volta sovietiche, che nel passato riuscivano a svolgere i compiti più truci e sparire poi senza lasciare tracce? Come è possibile che questi sprovveduti per tentare il loro crimine abbiano usato proprio il Novichok, veleno che chiunque avrebbe facilmente collegato alla Russia? E, ancora di più: sono stati realmente tanto incapaci da tentare un omicidio così suscettibile di attenzione internazionale senza nemmeno riuscirci? Ma infine che razza di agenti segreti sono questi della FSB il cui numero telefonico privato è reperibile da chiunque e, se interpellati, raccontano telefonicamente ad uno sconosciuto perfino i dettagli delle loro malefatte? E quale coordinamento esiste mai tra gli organi statali di quel Paese se un Ente (FSB) tenta un omicidio e un altro Ente (un Ospedale pubblico) è quello che salva la possibile vittima vanificando lo sforzo del primo?
Ma guardiamo anche da un’altra parte. All’inizio ci è stato raccontato che il veleno sarebbe stato contenuto nel tè che Navalny bevve all’aeroporto prima della partenza. Più tardi, i discepoli del “Grande Oppositore” hanno sostenuto di essere entrati, di frodo, nella camera d’albergo (non sorvegliata?) in cui lui aveva dormito e aver recuperato due bottigliette d’acqua (certamente dimenticate lì dai talentuosi assassini) su cui, in Germania, hanno poi ritrovato tracce del Novichok. Forse questa seconda spiegazione non era stata concordata con chi di dovere poiché l’ultima versione, per ora, è che la sostanza velenosa sia stata introdotta nel corpo di Navalny attraverso le sue mutande preventivamente e adeguatamente “trattate”.
Tutta la nostra stampa, cui non abbiamo motivo di non credere, descrive il giovane avvocato russo (45 anni) come il grande oppositore democratico del dispotico Putin. Forse ci si dimentica delle sue posizioni xenofobe e razziste ma a tutti i politici è concesso cambiare idea senza doverli accusare di trasformismo. Sicuramente la società russa e indipendente Levada-Center (marcata in Russia come “agente straniero”) che monitora da anni l’opinione pubblica ha preso una cantonata quando aveva riscontrato che non solo la notorietà del Navalny in Russia sarebbe piuttosto bassa ma che, anche tra chi ne ha conoscenza, godrebbe di una bassa percentuale di credibilità.
Il sondaggio di Levada è comunque datato poiché gli avvenimenti accaduti dall’agosto scorso ad oggi hanno contribuito a farlo conoscere maggiormente tra i suoi concittadini e anche ad aumentare il consenso verso di lui per la sua dichiarata battaglia contro la corruzione. Tra l’altro fenomeno realmente imperante in Russia.
Un forte aiuto a favore del consenso che riscuote è stato il filmato, da lui diffuso, che mostra un’immensa villa sul Mar Nero (a detta del filmato: 39 volte più grande del Principato di Monaco, la cui costruzione non è ancora terminata), che è stata presentata come la futura e sontuosa residenza privata dell’attuale presidente russo, pagata con i soldi delle tangenti.
Anche in questo caso non è certo in mio potere affermare se chi mente sulla reale proprietà e destinazione di quell’immobile sia il Navalny o l’imprenditore Rotenberg che se ne è auto attribuita la proprietà. Occorre però, anche in questo caso, sottolineare qualche piccolo dettaglio che sembra che nessuno dei protagonisti convolti abbia notato.
Durante la sua permanenza in Germania per la convalescenza, Navalny ha passato circa due mesi in un piccolo paesino della Foresta nera, Ibach, nel distretto di Friburgo, e si è incontrato a Kirchzarten, poco lontano, con i produttori tedeschi del filmato. Costoro sono due nativi di Friburgo, Nina Gwyn Weiland e Sebastian Weiland, che hanno lavorato per anni negli Stati Uniti nell’industria cinematografica e nel novembre 2020 hanno trasferito la loro attività nella Foresta Nera creando la Blackforest Studios con sede nell’ex casa termale del posto. Interpellati da un quotidiano locale, il Schwarzwalder Bote, il 22 gennaio scorso hanno ammesso di aver ricevuto tutte le immagini contenute nel film dagli Stati Uniti e di aver semplicemente provveduto al loro montaggio alla presenza del russo. Inutile stupirsi: non c’è niente di strano a immaginare che le immagini a tre dimensioni che mostrano l’interno e l’esterno del palazzo possano essere state, in qualche modo, “aiutate” da qualche servizio segreto straniero. Sono cose che possono capitare.
La stranezza è che, se veramente il futuro abitatore di quell’edificio sarà Putin (tanto è vero che sembra esservisi recato in una fase della costruzione), c’è da supporre che il Presidente della Russia non sia così familiare con i simboli principali del suo stesso Paese. Nel filmato, infatti, sopra il cancello principale è raffigurata l’Aquila Russa, stemma della Federazione che raffigura al centro S. Giorgio che uccide il drago. Peccato che l’Aquila sul cancello, cioè il simbolo che dovrebbe dare “l’impronta” al palazzo, russo non sia. Si tratta, infatti, di un simbolo molto somigliante ma è, purtroppo, l’emblema di un altro Paese: il Montenegro. Sul petto dell’aquila riporta l’immagine di un leone e la corona, le zampe e la coda sono ben diverse. Possibile che Putin confonda lo stemma del Montenegro con quello del suo stesso Paese? Oppure è chi ha girato il film che pecca di ignorante superficialità?
Cosa rispondere? Io non ho risposte da dare, ognuno tragga le conclusioni che preferisce.

Dario Rivolta.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.