Il reportage. In Iraq a un passo dall’Isis con i guerriglieri curdi

“In prima linea contro Daesh per riprenderci il nostro territorio. Siamo pronti a far guerra anche all’Iraq se servirà”

di Enrico Oliari

fronte isis peshmerga fuori1ERBIL – Il generale e leader politico-territoriale Kemal Kirkuki non si è perso in giri di parole: “Questa regione era abitata dai curdi, poi deportati da Saddam Hussein, per insediarvi popolazioni arabo-sunnite. Oggi noi ce la siamo ripresa e ce la terremo. Se non funzionerà la diplomazia, faremo un’altra guerra. Anche contro gli iracheni”.
Siamo sull’altura di Qarrah, prima linea del fronte dei peshmerga, i combattenti-militari curdi, nel settore di Kirkuk che dal confine turco si snoda ben oltre il Kurdistan iracheno, fin dove iniziano le linee dei militari di Baghdad.
Il panorama è mozzafiato, le linee del Daesh, nome arabo dell’Isis, si seguono con lo sguardo per chilometri. In lontananza, intanto, si odono colpi di cannone. Siamo arrivati al fronte schivando tubature e pozzi di petrolio.
Sul piccolo altipiano i peshmerga escono dalle postazioni e dalle trincee per salutare il loro generale.
La fotografia è chiara, da lì si capisce tutto: jihad e Corano non c’entrano pressoché nulla: si tratta di controllare le aree del petrolio, essenziali per lo Stato Islamico, per lo Stato iracheno e per il futuro Stato curdo, almeno così sperano nella regione di Erbil che del Kurdistan iracheno è la città capoluogo.
Ma sono loro, i peshmerga curdi, ad aver fermato nel 2014 l’esondazione in Iraq del Daesh, mentre interi reparti di militari iracheni fuggivano a piedi e i villaggi semplicemente venivano presi, uno a uno, dallo Stato Islamico. Che è appunto uno Stato, con una sua struttura che ha assorbito funzionari, militari e imprenditori ex simpatizzanti o militanti del partito Baath di Saddam Hussein messi da parte con la caduta del rais.
Quando alla sera rientriamo ad Erbil tiriamo un sospiro di sollievo. E’ andata bene, siamo ancora intatti e ci possiamo dedicare ai colori di una città vivace e fatta di gente ospitale.
La via vicina all’albergo dove alloggiavamo è un continuo di bancarelle, lustrascarpe e polli allo spiedo cotti in strada in un brulichio di uomini – solo uomini – che si spostano solo per lasciare passare le auto per poi riappropriarsi degli spazi.
Salta la corrente elettrica, accade più volte nella giornata per via delle molte (forse tutte) derivazioni clandestine. Si accendono i generatori di cui è dotata ogni casa, ogni albergo e ogni commerciante, mentre improvvisamente si viene avvolti dal frastuono dei motori e dai gas di scarico.
Anche lì si fa di ogni necessità virtù: gli uomini sugli autobus per gli uomini, le donne sugli autobus per le donne, la preghiera dai minareti ma al tempo stesso sul palmare l’applicazione Grindr, specifica per incontri gay, scoppia. In pochi secondi si aprono quattro chat, salvo il fatto che nessuno degli astanti, ovviamente, sia così coraggioso o sfrontato fino a mettere la foto del proprio viso.
Nei ristoranti si mangia carne a volontà e verdura, anche se olio, aceto e sale sono elementi sconosciuti. Ma ci si adatta. L’area di Erbil, infatti, di questi tempi non è terra per turisti, nemmeno estremi, per quanto già la Cittadella da sola con la sua storia, le sue torri e le mura ciclopiche meriti da sola il viaggio. Oggi è patrimonio Unesco ma è in fase di restauro e i soldi mancano.
Per gli alcolici scoviamo un negozietto non distante dal nostro albergo, pochi metri quadri e tante bottiglie da ogni dove. E’ un continuo viavai di uomini che escono con le bottiglie in piccoli sacchi neri, discreti. Nell’area specifica notiamo più taxi che all’aeroporto.
La crisi economica che avvolge il Kurdistan iracheno è delle peggiori. Centinaia di chilometri di frontiera, una moltitudine di profughi da gestire e il crollo del prezzo del petrolio stanno esercitando una pressione enorme, per quanto ancora le fondamenta resistano. Al Board Investment ci dicono di quali investimenti avrebbero bisogno e che verrebbero favoriti con dieci anni di esenzione dai dazi, come l’industria della pasta e dell’olio. Sperano molto negli investitori italiani per le capacità di produrre quantità e qualità.
I profughi sono invece nei campi, ce ne sono diversi a qualche decina di chilometri da Erbil, nel nord del paese e ad est. Visitiamo quello di Qushtapa, dove tra le tende e le baracche corrono bambini perlopiù siriani. Un uomo di Kobane ci tiene a raccontare la sua storia. E’ stato costretto a fare le valige in fretta, a prendere moglie e bambini e a scappare, perché stavano arrivando quelli del Daesh.
“Sono stati i miliziani del Ypg (partito curdo-siriano) a farci arrivare in Turchia, ma lì non ci trovavamo bene, perché sentivamo l’ostilità dei turchi nei confronti di noi curdo-siriani. Per questo siamo entrati in Kurdistan da nord, ma i campi profughi di Dohuk erano colmi, per cui ci hanno portati qui. E’ un dramma nel dramma, perché oltre a non avere più niente, essendo rifugiati non abbiamo il permesso di lavorare”.
“Qui sono ospitate 6.500 persone – ci spiega il direttore del campo, Sirwad Abed -. 1.800 famiglie, con poca acqua, insufficiente corrente elettrica e scarsità di medicine. Sono quasi tutte di fede musulmana, perché i cristiani sono passati di qui ma poi sono partiti per l’Europa”. L’Unhcr c’è, ma tutto il resto grava sulle magre casse della Regione autonoma. Giustamente il generale Hezar Umar Ismael ci fa notare che “l’Unione Europea dà tre miliardi alla Turchia per tenersi i profughi, a noi neanche un quattrino, ed abbiamo la stessa emergenza”. Vien da chiedersi se non è il caso di lavorare alla fonte, cioè rendere vivibili i campi e creare il lavoro, invece che assistere allo spettacolo di chi annega in mare e dei burocrati che non sanno come modellare Schengen alle nuove emergenze.
fronte isis peshmerga fuori2Torniamo in prima linea, questa volta più a nord, nella zona di Khazer. Neppure il vento trova il coraggio di soffiare tra la linea dei peshmerga e quelle del Daesh. Il fossato e il campo minato che separano le due posizioni sono avvolti da un silenzio surreale.  Al settore 7.1 siamo arrivati passando per strade impervie e ponti distrutti. “Siamo a 18 chilometri da centro di Mosul – ci spiega il generale Atu Zibari -. Qui siamo arrivati combattendo, sono territori presi al Daesh. Ma è stato difficile, perché le popolazioni dei villaggi sunniti si sono unite all’Isis, combattono con loro, com’è accaduto al villaggio di Hassan Shami, dove sul terreno sono rimasti un centinaio di abitanti che avevano imbracciato le armi per fermare la nostra avanzata”.
“Ci stiamo preparando per attaccare Mosul, ma anche lì la popolazione si è unita al Daesh: erano solo trecento i miliziani entrati nella città di un milione e mezzo di abitanti, che oggi è una roccaforte del Daesh”.
“Tenete già la testa – ci intima un miliziano armato di kalashnikov e con gli scarponi sprofondati nel fango – . Se vedono che ci sono giornalisti stranieri quelli sparano”. Parliamo piano, ci muoviamo lentamente. Perché “quelli” sono i jihadisti, rannicchiati anche loro dietro i sacchi di sabbia ben nascosti. In lontananza è issata la bandiera nera.

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Ponte autostradale di Hadith, sul Nahr el-Khazir, distrutto dai jihadisti dell’Isis.

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Kurdistan irq. Campo profughi di Qushtapa.

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Altura di Qarrah, L’arrivo in prima linea del generale Kemal Kirkuk.

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Deposito di esplosivi conquistato dai peshmerga all’Isis.

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Camion “armato” rinvenuto dopo aver conquistato il territorio.

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Enrico Oliari sul fronte peshmerga – Isis, a 18 chilometri dal centro di Mosul.

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Video. Peshmerga curdi catturano miliziani dell’Isis – Reportage Notizie Geopolitiche 2016.