Israele. Tra postille e scappatoie si continuano a vendere armi ai paesi in guerra

di C. Alessandro Mauceri

Non si placano le polemiche sull’inaudita violenza raggiunta dal conflitto tra israeliani e palestinesi. Violenze che hanno portato il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu a convocare una riunione straordinaria per decidere se creare una commissione d’inchiesta internazionale per rilevare violazioni dei diritti umani da parte di Israele nei Territori palestinesi. Violazioni che sarebbero confermate e testimoniate dalle foto riportate in prima pagina dal quotidiano liberal Haaretz che ha pubblicato le foto di 67 bambini di Gaza uccisi nel conflitto nei giorni scorsi. Titolo di apertura “Questo è il prezzo della guerra”. Foto poi riprese e pubblicate anche dal New York Times e che stanno facendo il giro del mondo.
Un mondo che piange per il “costo” in termini di vite umane di questa guerra, ma che dall’altro preferisce girarsi dall’altra parte e fingere di non vedere, preferendo a questi costi i ricavi. Ricavi come le centinaia di milioni di dollari entrati nelle casse di aziende a stelle e strisce e del governo Usa grazie alla vendita di armi e armamenti proprio a Israele. L’amministrazione Biden ha recentemente approvato la vendita di armi a guida di precisione a Israele per un importo pari a 735 milioni di dollari. Blanda la giustificazione secondo la quale la decisione del Congresso risalirebbe al 5 Maggio, quindi prima dell’inasprirsi degli attacchi: Israele è in guerra da decenni!
Fino ad oggi vana la richiesta sottoscritta da 29 senatori democratici che hanno chiesto un “immediato cessate il fuoco in Israele e nei Territori palestinesi”.
Il Trattato sul commercio delle armi (Arms Trade Treaty – ATT), adottato dall’Assemblea Generale dell’Onu il 2 aprile 2013 ed entrato in vigore il 24 dicembre 2014, vieta la vendita di armi a paesi in guerra. Ad oggi, questo Trattato conta 110 ratifiche e 31 approvazioni in attesa di ratifica. II perno dell’ATT sono gli articoli 6 e 7: il primo stabilisce i casi in cui i trasferimenti di armi sono proibiti , ovvero se in violazione di regimi di sanzioni tali gli embarghi decisi dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, o se le armi oggetto del trasferimento potrebbero essere usate per la commissione di atti di genocidio, crimini contro l’umanità o violazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949. Il secondo indica i criteri che gli stati devono tener presente prima di autorizzare le esportazioni. In particolare, non devono essere concesse autorizzazioni che possano permettere o facilitare violazioni del diritto internazionale umanitario; gravi violazioni dei regimi internazionali di diritti umani; atti illeciti ai sensi delle convenzioni internazionali relative al terrorismo; atti illeciti ai sensi delle convenzioni internazionali relative alla criminalità transnazionale organizzata. Ma non basta: al momento della decisione di esportare armi, ogni stato deve considerare con attenzione la possibilità che siano usate per commettere di atti di violenza di genere (gender-based violence) o essere usate contro donne e bambini. Violazioni come quelle commesse nei territori di Gaza nei giorni scorsi e che, in questo caso, sono documentate dalle foto pubblicate sui giornali.
Nonostante le polemiche, nonostante le violazioni dei diritti umani, a prevalere sono sempre la bramosia di guadagnare e di non fermare quello che da qualche decennio è uno dei settori più proficui e promettenti (la vendita di armi e armamenti).
Anche in Italia. Anche il Bel Paese ha ratificato l’ATT. Anzi molto prima, nel 1990, con la legge 185, aveva vietato la vendita di armi a paesi in guerra o responsabili di gravi violazioni dei diritti umani. Una legge allora all’avanguardia, ma non così vincolante come potrebbe sembrare a prima vista: è possibile vendere armi a paesi con i quali vige un qualche accordo di cooperazione nel campo della difesa, bilaterale o nella cornice NATO.
Grazie a questa postilla presente nelle leggi di molti paesi sviluppati è possibile vendere armi anche a paesi dove non dovrebbe essere permesso. Paesi come l’Arabia Saudita, oggetto di polemiche proprio per questo motivo qualche mese fa, o gli Emirati Arabi Uniti o la Turchia o l’Egitto: lo scorso anno, mentre i media parlavano del caso Regeni, l’Italia ha esportato in Egitto armi e /o armamenti per quasi un miliardo di Euro – 991 milioni). E poi in paesi come gli USA o il Regno Unito (anche loro impegnati attivamente in conflitti armati). Ma anche in Malesia, in India e in Pakistan, paese in guerra tra loro da decenni. E anche in Israele: secondo i dati di Archivio Disarmo, Israele rientra tra i primi 25 paesi dove vengono spedite armi o armamenti prodotti in Italia (per la ragguardevole cifra di poco meno di 70 milioni di Euro dal 2018 al 2020.
La verità è che la vendita di armi e armamenti è un mercato fiorente al quale i paesi “sviluppati” non sono disposti a rinunciare. Del resto, no è difficile: basta non pensare agli ideali che sono alla base di accordi internazionali e leggi pacifiste (a cominciare dalla Costituzione) e alle promesse fatte ai cittadini. E trovare il giusto cavillo per continuare a lucrare da questo mercato.
Nella speranza, sotto sotto, che nessuno debba mai vedere le foto dei bambini morti a causa delle armi vendute a questi paesi.