“Italians for Darfur” denuncia violenze, profughi in fuga e ruberie

di C. Alessandro Mauceri –

sudan rezeigat darfurNelle scorse settimane è stato presentato il Rapporto 2016 di “Italians for Darfur” sul conflitto in Sudan. A denunciare l’aggravarsi della situazione nella regione occidentale del paese è stata l’associazione omonima (Italians for Darfur). Le conseguenze degli scontri sono gravissime per la popolazione: bombardamenti continui, oltre 120mila sfollati, centinaia di vittime (in poche settimane) alle quali vanno aggiunti vanno aggiunti moltissimi casi di stupri di massa, spesso usati come arma di guerra. “Siamo di fronte alla crisi umanitaria più lunga del secolo”, ha detto la giornalista Antonella Napoli, che da anni è impegnata in campagne per attirare l’attenzione dei media a delle autorità internazionali sul Darfur. “L’Europa punta a controllare le migrazioni dall’Africa sub-sahariana. E per questo ci chiediamo: quali garanzie sono state fornite sul rispetto dei diritti umani nella gestione dei flussi migratori? Sono previste forme di monitoraggio per garantire che non siano commessi abusi?”
Da 13 anni nel Darfur gli scontri proseguono senza sosta, ed hanno causato oltre due milioni di sfollati. Sono poche le persone che superano il 35esimo anno di vita, molti bambini muoiono prima del sesto anno di vita; le statistiche sono tremende: ogni giorno ne muoiono settantacinque! La scolarizzazione è molto bassa e si riesce a garantire un’educazione minima solo al 65 per cento dei bambini. Nelle ultime settimane sono stati distrutti 60 villaggi e almeno 73mila persone sono state costrette a fuggire a causa dei bombardamenti e dei combattimenti tra le forze governative e i ribelli nella regione di Jebel Marra.
Gli sfollati sono per il 90 per cento donne e bambini (chissà come mai quelli che sbarcano in Italia, invece, sono per la maggior parte uomini adulti): cercano di raggiungere i campi profughi gestiti da Ocha, il coordinamento degli aiuti umanitari delle Nazioni Unite.
Sacche di resistenza della ribellione in Darfur combattono con l’esercito sudanese. L’esercito non smette di bombardare le roccaforti dei ribelli del Sudan Liberation Movement, guidato da Wahid al Nur, causando nuovi rifugiati che fuggono dai combattimenti in una situazione umanitaria ‘disperata’.
Proprio l’intervento delle Nazioni Unite è uno dei temi caldi del rapporto. I 27.000 caschi blu delle Nazioni Unite, la cui missione è stata autorizzata dalla risoluzione 1769 del 2007 e che sono nel paese a garanzia della sicurezza delle popolazioni locali, hanno ottenuto risultati pressoché nulli. Mancano uomini, mezzi, elicotteri, per controllare un territorio grande come la Francia. Dei cinquanta paesi che partecipano alla missione, quasi tutti sono africani, molti erano già presenti con propri contingenti nella precedente missione organizzata sotto l’egida dell’Unione Africana. Spesso non riescono a raggiungere le zone montuose colpite dai raid aerei e le zone dove c’è davvero bisogno di loro.
Sebbene il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbia esteso fino al 12 marzo 2017 la missione, non ha approvato le richieste raccomandazioni avanzate da Stati Uniti e Regno Unito di introdurre sanzioni a individui ed entità coinvolte.
A questo si aggiunge che la presenza delle forze Onu non è vista di buon grado dal governo di Khartoum. Già a maggio dello scorso anno il governo sudanese aveva contestato la decisione delle Nazioni Unite di frenare l’azione di ritiro delle truppe di peacekeeping. E recentemente il governo ha presentato una formale protesta all’incaricato degli affari diplomatici dell’ambasciata degli Stati Uniti, Jerry Lanier.
Alle spalle del conflitto gli interessi economici legati allo sfruttamento e al traffico illegale di oro, che si sta diffondendo sempre di più in Sudan.
Quello che si profila, stando a quanto riportato nel rapporto presentato nelle scorse settimane, è il fallimento della missione delle forze Onu. Un risultato che, secondo un’inchiesta del New York Times (citata nel documento), sarebbe dovuto anche a intrighi e lotte di potere all’interno del Palazzo di Vetro. Il rapporto “Italians for Darfur” ha definito Margaret Carey, l’attuale responsabile di Integrated Operation Team, cioè l’agenzia che coordina gli interventi di peacekeeping che gestisce la missione Unamid, “una funzionaria che si è distinta per superficialità, ignoranza dei problemi da affrontare e interessi personali”. Sempre secondo il NYT il sistema di peacekeeping in Sudan sarebbe diventato una “occasione per ruberie, affari sporchi e carrierismo, alle spalle delle popolazioni che dovrebbero essere protette”.
Il rapporto riporta anche la relazione del segretario generale delle Nazioni Unite sulla missione affermando che “le forze governative hanno usato eccessiva violenza, anche sparando proiettili veri, al fine di disperdere un’ondata di proteste contro misure di austerità. Tali forze sono state coinvolte in azioni che hanno prodotto oltre 170 morti e centinaia di feriti e di arresti”.
La situazione, dal punto di vista del rispetto dei diritti umani, è critica. Molte persone sono state trattenute in stato di fermo per mesi senza alcuna imputazione e senza assistenza legale. Parecchi detenuti sono stati picchiati, insultati, privati del sonno e tenuti a lungo in cella di isolamento. Come hanno riferito gli esperti delle Nazioni Unite al Consiglio per i diritti umani (CDU), il governo non ha condotto indagini accurate e indipendenti sulle uccisioni del 2013 e i relativi abusi.
Ma non basta. Le autorità continuano a censurare i mezzi di informazione e a tenere una “lista nera” dei giornalisti non graditi: in decine di occasioni gli agenti di sicurezza hanno confiscato le tirature dei giornali e, lo scorso anno, in diverse occasioni i Servizi di Sicurezza e di Intelligence sudanesi (NISS) hanno arrestato e trattenuto giornalisti senza alcuna valida motivazione.
Lo stesso è stato fatto con i membri del partito di opposizione, nonostante le promesse del presidente Omar al-Bashir di rilasciare tutti i “prigionieri politici”. Mohammed Salah, Taj Elsir Jaafar e Moammer Musa Mohammed, esponenti dell’opposizione, sono stati arrestati e trattenuti senza alcun capo di imputazione. Sadiq al-Mahdi, leader del Partito Nazionale Umma, è stato arrestato dopo aver pubblicamente criticato gli abusi commessi dalle Forze di Supporto Rapido nel Darfur. Ibrahim al-Sheikh, leader del Partito del Congresso sudanese, è stato arrestato ad al-Nuhood, nel Kordofan del Nord, e trattenuto per mesi.
Nel paese ormai vige una sorta di legge marziale. A luglio 2013, il parlamento sudanese ha modificato la legge del 2007 per permettere ai tribunali militari di esercitare la propria giurisdizione su civili per reati quali “pericolo per la Costituzione” e “pubblicazione di notizie false”.
A pagare le conseguenze del ritiro della missione Onu (e della sospensione dell’indagine della Corte penale internazionale a carico del presidente del Sudan, Omar Al Bashir) saranno inevitabilmente i civili coinvolti involontariamente nel conflitto. E secondo le stime saranno milioni le vittime del collasso del sistema di aiuti umanitari.